Tra le stragi che hanno insanguinato l’Italia tra la fine degli anni ‘60 e i primi anni ‘90 è la seconda per gravità dopo quella alla stazione di Bologna anche se per quasi quarant’anni, fino al 2012, nessuno la ha ricordata e le 32 vittime erano state persino depennate dall’elenco delle vittime del terrorismo. Il 17 dicembre 1973, primo giorno d’udienza contro 3 dei 5 terroristi palestinesi arrestati il 5 settembre a Ostia con 2 lanciamissili Sam 7 Strela sovietici, un commando palestinese attaccò l’aeroporto di Fiumicino.

Dopo aver raggiunto la pista sparando all’impazzata i terroristi gettarono una bomba al fosforo e due granate all’interno di un aereo della Panam, uccidendo 30 persone tra cui 4 passeggeri italiani. Poi si rivolsero verso un aereo Lufthansa e nella fuga uccisero il finanziere Antonio Zara, che cercava di fermarli. L’aereo della Lufthansa fu fatto decollare coi terroristi a bordo e atterrò ad Atene, dove fu ucciso l’addetto ai bagagli Domenico Ippoliti. Di lì i dirottatori tentarono di sbarcare prima a Beirut e poi a Cipro, che non autorizzarono l’atterraggio. Dopo uno scalo a Damasco l’aereo ripartì per Kuwait City dove la corsa ebbe termine e i terroristi si arresero. Come nel caso dell’attacco alla sinagoga del 1982, era un attentato annunciato ma nessun servizio di sicurezza era stato disposto a protezione dell’aeroporto. Il 14 dicembre, tre giorni prima dell’attacco, un’informativa sull’imminente attacco era stata inviata al direttore dell’Ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato dal Reparto D del Sid (sigla dei servizi segreti italiano di allora): “Viene segnalato che elementi di al Fatah sono partiti per l’Europa alcuno giorno orsono allo scopo di attaccare una rappresentanza israeliana o un aereo della El Al. L’attacco verrebbe condotto principalmente contro un aereo”. L’allarme arrivava dopo numerosissime segnalazioni precedenti, molte delle quali pubblicate da Gabriele Paradisi in un’inchiesta pubblicata sul sito ReggioReport.

Le somiglianze tra le informative del 1973 e quelle del 1982 -della quale abbiamo parlato nei giorni scorsi – in cui si metteva in guardia da attacchi contro sinagoghe del gruppo di Abu Nidal, “prima durante o dopo lo Yom Kippur” sono evidenti. In entrambi i casi gli avvertimenti erano stati molteplici: 23 prima di Fiumicino, 16 prima della sinagoga. Le differenze sono però rilevanti. Nel 1982 l’accordo tra Stato italiano e Olp, il cosiddetto lodo Moro, era ormai rodato e in funzione da anni. Nel 1973 lo si stava ancora mettendo a punto ed è probabile che proprio il sanguinoso attentato di Fiumicino abbia svolto un ruolo decisivo nella definizione dei particolari, a tutt’oggi ignoti. Se infatti l’esistenza del lodo è confermata da una quantità di elementi tale da non lasciare alcun dubbio, la reticenza dello Stato non permette di delinearne i contorni. Decisiva in questo senso è in particolare la scelta di non desecretare l’archivio Stefano Giovannone, colonnello del Sid, capocentro dell’Intelligence italiana in Medio Oriente, uomo di fiducia di Moro nei servizi, massimo artefice dell’accordo con i palestinesi. Questa reticenza e la conseguente vaghezza sul lodo che permettono alla Corte di Bologna, nei processi sulla strage, di affermare che “l’esistenza del lodo non ha trovato alcuna conferma precisa” e di non chiedere quindi, come avrebbe potuto, la desecretazione dell’archivio Giovannone, oppure allo storico Miguel Gotor di affermare contro ogni evidenza che si trattava solo di un “lodo di intelligence” che non coinvolgeva la politica.

La genesi del lodo aiuta pertanto a mettere meglio a fuoco contenuti e finalità di quell’accordo. In Italia, gli attentati e gli arresti di palestinesi armati, a partire dall’unico dirottamento nella storia di un areo della El Al, il 22 luglio 1968, furono numerosi. Il volume di fuoco si alza nel 1972-73. Il 4 agosto ‘72 viene fatto saltare l’oleodotto di Trieste. Poco dopo, il 16 agosto, due palestinesi regalano un mangianastri imbottito di esplosivo a due ragazze inglesi in procinto di imbarcarsi su un areo della El. Vengono rintracciati e arrestati e iniziano subito trattative con i palestinesi per risolvere l’incidente. Ad avviare l’iniziativa diplomatica segreta è il ministro degli Esteri. “Aldo Moro – racconterà anni dopo l’ex capo del controspionaggio Viviani – aveva detto al capo del Sid, Miceli: “Veda di mettersi d’accordo con Arafat. Trovi una soluzione“. La “soluzione” passò per l’invio a Beirut del colonnello Giovannone, come raccontò lui stesso al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni: “Alla fine del 1972 fui mandato in missione dal ministero degli Esteri e dal Sid… acché prendessi contatto con qualche dirigente dell’Olp perché si evitassero azioni terroriste contro l’Italia”. Un appunto del Sid del 17 dicembre 1972 rende conto della missione appena avviata: “In relazione all’attività terroristica sul piano internazionale sono in corso colloqui riservati e non ufficiali con i vertici di varie, note organizzazioni in aderenza ai nostri interessi”.

Sul piano concreto, l’esito dei “colloqui riservati” fu la scarcerazione dei due palestinesi, il 4 febbraio 1973, decisa dalla procura di Roma. Non fu una scelta indolore. E’ rimasta leggendaria la risposta del procuratore capo di Roma Achille Gallucci alle proteste di due magistrati secondo i quali il codice penale non avrebbe consentito la scarcerazione: “Il codice, a saperlo leggere, ti dice pure come si fanno le fettuccine”. Gallucci avocò a sé l’inchiesta. Il giudice istruttore contrario alla scarcerazione si mise in licenza per un solo giorno, quello in cui fu concessa ai due palestinesi la libertà provvisoria. Furono trasportati a Chieti, dove avrebbero dovuto presentarsi una volta alla settimana in questura. Scomparvero dopo appena due giorni. Nel complesso tra il 1972 e i primi 8 mesi del 1973 una decina di terroristi palestinesi arrestati in Italia furono scarcerati senza troppo clamore, con l’obiettivo, condiviso peraltro da molti altri Paesi europei, di evitare ritorsioni e rappresaglie. A favore del patto segreto c’erano però anche motivazioni diverse dalla sicurezza, destinate a crescere d’importanza dopo la crisi petrolifera del 1973, quando i paesi arabi produttori di petrolio, in seguito alla Guerra del Kippur in ottobre, aumentarono il prezzo del greggio e misero l’embargo verso i Paesi più filoisraeliani.

Un memorandum dell’ambasciatore in Libano Vincenzo De Benedictis riassumeva così il quadro: “Questa è l’importanza assunta dai palestinesi nella regione del Golfo: in Kuwait sono circa 14mila e controllano il settore informativo e del lavoro; negli Emirati Arabi Uniti controllano i posti direzionali chiave; nel Bahrein e nel Qatar controllano gli ingranaggi dell’industria petrolifera; nella stessa Arabia Saudita numerosi funzionari sono palestinesi”. Questo quadro spiega nel dettaglio l’Appunto inviato dal Sid al governo nel quale si evidenzia “la possibilità che l’Italia giungerà ultima. Le posizioni di maggior interesse e di maggior prestigio verranno accaparrate da quelle nazioni che, per prime, offriranno la loro collaborazione”. L’intesa conosciuta oggi come lodo Moro nasce così, all’incrocio tra l’interesse immediato consistente nell’evitare attentati e quello strategico derivante dalla postazione strategica occupata dalla questione palestinese e dai funzionari palestinesi nella sfida mondiale in corso sulle fonti energetiche. La spinta finale fu però probabilmente proprio il sanguinoso attentato che alla fine del 1973 mise a rischio di naufragio l’accordo tra lo Stato italiano e i palestinesi e finì invece per cementarlo.

(FINE PRIMA PARTE. CONTINUA)