Il rapporto
Baby gangster, tutti i numeri di un’emergenza che non esiste

Nelle carceri minorili italiane il 15 gennaio erano detenuti in tutto 352 ragazzi e 23 ragazze. Questo piccolo numero racchiude in se molte sorprese. Anzitutto per quanto è piccolo. Nonostante i ragazzi detenuti nei nostri IPM siano da tempo in calo, di fatto questo è uno dei numeri più bassi mai registrati nella storia dell’Italia repubblicana.
Altra sorpresa, da tenere però sempre a mente, è che la maggioranza di questi ragazzi, il 58%, pur avendo commesso il reato da minorenni, è oggi maggiorenne. Non stiamo dunque parlando solo di ragazzini. Ulteriore sorpresa, almeno per alcuni, è il fatto che questa diminuzione del ricorso al carcere non abbia comportato una crescita dalle criminalità minorile. Al contrario fra il 2014 e il 2018 le segnalazioni da parte delle forze di polizia all’autorità giudiziaria riguardanti i delitti commessi da minori sono diminuite dell’8,3%. Calano gli omicidi volontari (-46,6%) e colposi (-45,4%), i sequestri di persona (-17,2%), i furti (-14,03%) e le rapine (-3,9%). Chiunque gridi all’emergenza in materia di criminalità minorile lo fa ignorando, più o meno deliberatamente, i fatti. I tassi di delinquenza minorile italiani sono tra i più bassi d’Europa e, come abbiamo visto, il fenomeno è ulteriormente in calo.
Questi numeri non sono però piovuti dal cielo. Al di là delle attività educative e di prevenzione, nella scuola e fuori, che restano lo strumento fondamentale con cui si costruire una comunità solidale e coesa, nel corso degli anni il sistema della Giustizia minorile ha sviluppato una gamma articolata ed efficace di risposte alla devianza che hanno relegato il carcere al ruolo di strumento marginale. A fronte dei 375 ragazzi detenuti al 15 gennaio 2020, nella stessa data i ragazzi provenienti da percorsi penali e che erano ospitati nelle comunità di accoglienza per minori erano 1.104.
La scelta che ha fatto il nostro sistema è chiara. Non si pone più al centro il carcere ma una rete di strutture, le comunità appunto, che guardano anzitutto ai bisogni educativi e di crescita del minore e che lasciano l’istanza repressiva in secondo piano. Anche nei numeri, dato che si tratta di strutture che ospitano in prevalenza minori che non provengono dall’area penale ma che hanno solo bisogno di accoglienza e supporto.
E non ci sono solo le comunità. Solo nel primo semestre del 2019 sono stati 2.382 i provvedimenti di messa alla prova, 3.653 in tutto il 2018. La messa alla prova rappresenta un istituto di grande interesse, esteso recentemente anche agli adulti. Non si tratta solo di una alternativa al carcere, ma allo stesso processo, che viene sospeso durante la misura. Se questa avrà successo, ed è così in oltre l’80% dei casi, alla sua conclusione il reato verrà dichiarato estinto. Ad un quarto circa dei ragazzi messi alla prova il giudice prescrive il soggiorno in comunità ma gli altri eseguono la misura nel proprio contesto di provenienza, con la propria famiglia, andando a scuola, al lavoro o svolgendo attività di volontariato.
Il quadro non è ovviamente tutto rose e fiori. Chi finisce in IPM spesso trova strutture inadeguate rispetto ai compiti ambiziosi previsti dalla legge ed anche le comunità non sono tutte uguali, ma è certo che il sistema della giustizia minorile italiano è riuscito a ridurre al minimo il ricorso al carcere garantendo al tempo stesso sicurezza alla collettività e sostegno ed opportunità a chi ha commesso il reato. Non a caso anche all’estero il caso italiano è guardato con grande interesse.
Sicurezza per la collettività e sostegno ed opportunità per gli autori di reato. Un binomio che solitamente ci viene proposto in forma di contrapposizione: per garantire la sicurezza della collettività bisogna chiudere la gente in galera e buttare via la chiave, altro che sostegno ed opportunità per gli autori di reato. L’esperienza della giustizia minorile italiana dimostra l’esatto contrario.
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