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Il gradimento al leader e il consenso al partito: il caso del M5S

Giornalista, comunicatore, fondatore di Velocitamedia.it
Il gradimento al leader e il consenso al partito: il caso del M5S

Di certo gli stracci che negli ultimi giorni hanno preso a volare tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte non aiutano.

Il tema, però, preesiste a questa resa dei conti che covava da tempo, e che solo i più sbadati non avevano visto. Perché il M5S è in caduta, mentre il suo presidente continua a godere di un consenso personale altissimo? Ho affrontato il tema con Livio Gigliuto, vicepresidente di Istituto Piepoli, proprio per approfondire il legame (se c’è) tra consenso personale e consenso al partito.

“Se si prova a costruire una sorta di algoritmo che determini una proiezione del consenso del leader sul partito, non lo si trova”, esordisce Gigliuto. Insomma, potremmo chiuderla qui: non c’è relazione diretta, non c’è proporzione, se così possiamo definirla, tra la popolarità del singolo personaggio politico e le intenzioni di voto del proprio partito. Anche perché è chiaro che “popolarità” vuol dire “gradimento” (anche estemporaneo), mentre il voto per un partito è un’azione ben più impegnativa per un elettore.

“Prendiamo il caso-Berlusconi. È cresciuto tantissimo negli ultimi due anni, ma Forza Italia resta ancorata al 7%. È un elemento che può essere esteso a tutti i leader: il loro consenso personale è sempre differente dalle intenzioni di voto che registriamo sui partiti. È una proporzione che non esiste, anche se ovviamente avere un leader con alto livello di consenso è un elemento positivo per un partito”.

A riprova di ciò, il fatto che domenica 12 giugno il M5S abbia registrato un risultato assolutamente non da prima forza in Parlamento. “Certo, fatta eccezione per gli exploit della Appendino e della Raggi, le amministrative sono storicamente un ostacolo enorme per questo partito, che non fa del radicamento sul territorio la propria forza”. Le urne hanno quindi sostanzialmente restituito una notizia che non c’è.

Quanto al presidente del M5S che, come detto, non riesce a portare in dote al partito il suo gradimento personale, vanno precisati alcuni elementi. “Rispetto alla Meloni, ad esempio, ha una caratteristica opposta. Piace molto nel proprio partito e molto anche nell’elettorato degli altri partiti”, spiega Gigliuto. Piaceva nel Centrosinistra e non dispiaceva nel Centrodestra. Differentemente dal leader di FdI, però, Conte non porta trasversalità al partito. “Anzi, si può dire che sia stato trascinato dal M5S, senza ricambiare in termini, appunto, di trasversalità. Anche tra gli elettori del Pd oggi si registra meno gradimento verso di lui che in passato”.

Qui non si può non parlare di Campo Largo, visto che, come attesta Gigliuto, gli elettori del M5S in molti casi alle amministrative non hanno votato il candidato del Centrosinistra, ma hanno preferito procedere in ordine sparso. “A Genova, ad esempio, Bucci è stato votato dal 90% degli elettori di Centrodestra, mentre Dello Strologo solo dalla metà degli elettori pentastellati. A Verona, Tommasi ha preso il 55% degli elettori del M5S, Miceli a Palermo addirittura il 38%. Nel Centrodestra, probabilmente, nella costruzione di un sentire comune la base elettorale è più avanti dei vertici politici, che invece sono piuttosto litigiosi”.

In questo c’è forse un deficit anche narrativo da parte di chi prende le decisioni. “Probabile”, risponde il vicepresidente di Istituto Piepoli. “Letta e Conte vogliono il Campo Largo, ci puntano. Ma gli elettori non lo sentono addosso. Elemento cruciale nella costruzione di una coalizione è la costruzione del suo racconto, e su questo stanno bucando. Nello stesso M5S, Conte si trova a lottare contro le tante leadership (Di Maio, Patuanelli, Fico) per essere legittimato, e sta facendo molta fatica. D’altra parte, questa ambiguità sul governo – stare dentro ma con molti distinguo o addirittura dare appoggio esterno – non aiuta. Così come lo stare nel Centrosinistra: sono lì, ma si trovano molte differenze”.

Eppure, tematiche su cui poter costruire questo racconto ce ne sarebbero: a partire, ad esempio, da ambiente e sostenibilità. “Certo, ma non solo. Sui quesiti referendari, gli elettori di Pd e M5S si sono comportati allo stesso modo. Il frame-modello dovrebbe essere quello del Reddito di Cittadinanza. Il Pd ha ammorbidito moltissimo la sua posizione, non fa più le barricate, e all’elettore è passato questo concetto, lo ha assorbito. Agire su questa falsa riga può aiutare nella costruzione di un racconto comune”.

Se Conte fosse stato un leader esterno, un leader “venuto dal mare”, sarebbe arrivato a unire i due partiti? “È possibile. Sarebbe stato un ottimo Papa straniero, piaceva ai due elettorati: quelli del M5S vanno orgogliosi del suo periodo da presidente del Consiglio, a quelli del Pd non dispiaceva affatto. Poteva essere il federatore che arrivando da fuori dice ‘noi due siamo uguali, siamo la stessa cosa’ e mette il sigillo all’alleanza. Poteva essere un buon racconto – chiude Gigliuto -, quello che è stato Prodi venticinque anni fa. Oggi questo non c’è, e si riflette nel rapporto tra i due elettorati, più che tra i due partiti”.