Se tutto va bene, siamo rovinati. L’economia italiana si trova in uno stato peggiore di quello di un’economia di guerra, e ci vorranno anni per ritornare ai livelli di Prodotto Interno Lordo del 2019, sempre che il Governo faccia le scelte giuste per non peggiorare ancora di più, se possibile, questa drammatica situazione. Dopo la forte riduzione registrata nel primo trimestre, pari al -5,4%, l’economia italiana nel secondo trimestre 2020 ha, infatti, subìto una contrazione senza precedenti, pari al -12,4%, per il pieno dispiegarsi degli effetti economici dell’emergenza sanitaria e delle misure di contenimento adottate, ha rilevato l’Istat ieri nel suo commento ufficiale alle stime preliminari del PIL. «Con il risultato del secondo trimestre il Pil fa registrare il valore più basso dal primo trimestre 1995, periodo di inizio dell’attuale serie storica», ha chiosato l’Istituto.

Si tratta quindi di un pesante record negativo e di un minimo storico che si inserisce in un contesto macroeconomico che era già di stagnazione, dopo il fallimento di tutte le politiche economiche e di bilancio attuate dai governi degli ultimi 20 anni. Più nello specifico, in termini congiunturali, quello di oggi è il terzo calo consecutivo, che conferma quindi la recessione già in atto, come abbiamo detto. Il calo trimestrale del -12,4% segue il -5,4% del trimestre precedente. La contrazione tendenziale, pari al -17,3%, invece, viene dopo la flessione annua del -5,5%. È di poca consolazione, per il Governo Conte, il fatto che anche molti altri paesi abbiano registrato cali analoghi o anche peggiori, perché le economie di quei paesi non si trovavano, all’inizio di questa crisi, nelle stesse condizioni di stagnazione strutturale nella quale si trovava la nostra (bassa crescita, bassa produttività). Cosa fare, dunque, per uscire da questa situazione, da questa trappola drammatica?

La parola chiave è “resilienza”, intesa, secondo una nota definizione derivata dalla psicologia moderna, come quella capacità di resistenza alla crisi e di auto rigenerazione. Noi italiani, la resilienza, ce l’abbiamo incorporata nel Dna, da sempre. Popolo di navigatori, poeti ed eroi, ma il popolo italico, come sosteneva Roberto Gervaso, non s’organizza, s’arrangia. Ma la resilienza e l’arte di arrangiarsi, da sole, questa volta, non bastano. Adesso sarà indispensabile sapersi organizzare. Occorrono grandi strutture e grandi investimenti, grandi sistemi efficienti: insomma tecnocrazie pubblico-private in grado di progettare il futuro. E mancano le riforme strutturali che i governi precedenti avrebbero dovuto fare e, invece, non hanno mai fatto: la riforma della giustizia civile, quella degli appalti, del mercato del lavoro, semplificazioni, liberalizzazioni, privatizzazioni. Non basta, lo ripetiamo, lo spontaneismo resiliente del modello italico. Questo serve, ma non ci fa uscire dalla crisi. Ci fa solo galleggiare in un mondo che riprenderà a correre più veloce di noi. Occorre, invece, che il sistema paese abbia uno scatto.

A livello di governo, di parlamento, di famiglie e di imprese. Il Paese ha bisogno che si torni subito al lavoro, soprattutto nella componente dell’organizzazione pubblica. Non è possibile che sotto l’eufemismo dello “smart working”, la maggior parte dei pubblici dipendenti, volente o nolente, non sia ancora tornata al suo posto. Così come non è possibile che non riparta appieno la scuola, l’università, i tribunali, le aule di giustizia, gli uffici e le burocrazie delle grandi imprese pubbliche. Occorre da subito un grande sforzo collettivo di ripartenza della nostra società. Uno “sveglia Italia” dal sonno prodotto dal lockdown. Occorre un New deal. Perché solo così i 300 e passa miliardi di euro delle risorse europee, che saranno destinate nei prossimi anni al nostro Paese attraverso i 4 pilastri finanziari (MES, SURE, BEI e NGUE), potranno fare la differenza.

Ma occorre che assieme alle risorse si trovino i veicoli capaci di attrarre tanto risparmio privato che attualmente sonnecchia e che potrebbe essere mobilitato per circa altrettanti 300 miliardi di euro, risorse private che si andrebbero a sommare a quelle pubbliche provenienti dall’Europa. Per fare tutto ciò, però, il Governo non potrà fare come al solito, distribuendo caoticamente soldi a pioggia, in nome di un anacronistico assistenzialismo, o delle assurde norme sulla cassa integrazione e su masochistici divieti di licenziamento attualmente in discussione. Rischiamo di morire proprio di assistenzialismo. Le soluzioni alternative, virtuose, ci sono. Tra le altre, come ricordato dal presidente della Commissione di Vigilanza su Cassa Depositi e Prestiti, Sestino Giacomoni, quella di istituire un Fondo sovrano, proprio presso Cassa Depositi e Prestiti, in grado di fornire la sua capacità progettuale per indirizzare le risorse del Recovery Fund e del risparmio privato verso progetti concreti, con l’obiettivo di far ripartire il nostro sistema produttivo e infrastrutturale, e poi per usare il risparmio delle famiglie per acquisizioni estere, sul modello del fondo sovrano norvegese. Un fondo sovrano che con l’aiuto delle società di gestione faccia confluire, attraverso le agevolazioni fiscali, parte del risparmio delle famiglie, dei fondi pensione, delle casse di previdenza, gli immobili pubblici, il patrimonio architettonico, artistico e culturale, le partecipazioni azionarie.

Mettendo a frutto tutte le nostre risorse più preziose per finanziare e mantenere in vita le nostre imprese possiamo far ripartire la nostra economia. Inoltre, occorre utilizzare altri strumenti per incanalare l’utilizzo dei risparmi privati a fini produttivi e di crescita o di finanziamento delle PMI (PIR), o per costruire il terzo pilastro della previdenza privata (CIR). Questi i grandi obiettivi che abbiamo di fronte. Per raggiungerli, farebbero bene Parlamento e Governo, a non chiudere nei prossimi giorni, tenere aperto ad agosto, come segnale di responsabilità ed impegno. E basta, per favore, perdere tempo nelle lotte interne alla maggioranza e nel Governo sull’opportunità di ricorrere o meno agli strumenti europei, a partire dal MES, anche alla luce dei numerosi chiarimenti e definitivi che ci sono stati nelle ultime settimane. Basta con le ideologie, basta con i ricatti.

Adesso è il tempo dei progetti, della sinergia, della scrittura del Recovery Plan entro la fine di settembre. Servono consapevolezza e responsabilità. Non si può più stare immobili a dibattere e basta e, come ha detto anche il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, a rimanere ancorati alla fase uno. Occorre, dicevamo, un salto di qualità, altrimenti ci aspetta solo la bancarotta. Politica, economica, finanziaria e democratica.