Tra le riviste che ha inventato e quelle che ha diretto, arriviamo oltre il numero di sessanta. Testate che a volte hanno avuto vita brevissima e dimenticabile, ma altre volte sono andate a riempire spazi fino a quel momento vuoti – per esempio Familia, dedicato all’inizio degli anni Novanta alle nuove famiglie allargate, Vincere, che si occupava del mondo della disabilità («un’umanità dolente se compressa, sorprendente se svelata: l’umanità dei più deboli nel mondo delle forti disattenzioni»), Fatti Nuovi, tentativo nel 2004 di realizzare un quotidiano popolare – . Il nome di Massimo Balletti, però, è indelebilmente legato ai periodici sexy o, come ama chiamarli lui, glamour. Tanto che racconta con divertimento di quando è stato chiamato Il principe dell’eros, una definizione che gli è piaciuta al punto da usarla come titolo del suo libro uscito da poco (ed. Iacobelli), un libro in cui si incontrano, disegnati con abilità davvero eccezionale, mascalzoni di genio e uomini di nome ma di nessun valore, intellettuali veri come Leonardo Sciascia e Gian Carlo Fusco, fatti di guerra e di mafia, personaggi bizzarri e situazioni surreali.

Con uno spirito scherzoso a volte paesano, anzi siciliano, che ci riporta alla mai abbastanza apprezzata commedia all’italiana, che corre parallelo a una dimensione internazionale, perché Balletti, grazie soprattutto ai suoi giornali sexy, era di casa negli Stati Uniti, nel Nord Europa, in Giappone, e mangiava alla stessa tavola di imprenditori come Hugh Hefner. Nato a Palermo nel 1942 in una famiglia colta, con sei figli (uno dei quali, Elio, è stato un importante scenografo, mentre Katy, sposata al principe Notarbartolo di Sciara, è stata una quotata pittrice), Balletti è cresciuto in una realtà che nascondeva il dramma recitandolo, perché ricordiamoci che in questo i siciliani somigliano agli aristocratici inglesi e seguono la massima di Chesterton: trattare i drammi con leggerezza e prendere molto sul serio le cose per nulla drammatiche.

Così a casa Balletti ci si inseguiva urlando per gelosia, ma fingendo di litigare per Anna Karenina o Madame Bovary. E sulle tragedie, come la morte precoce di uno dei fratellini, il pudore assoluto espresso nel silenzio e però ornato dalla quasi venerazione per un paio di minuscole scarpette rosse. Il mistero, il non detto accanto alla narrazione impreziosita, il gusto per il lato buffo e paradossale della vita, l’osservazione dei dettagli. Con questo background e questo occhio Massimo Balletti ha osservato e oggi racconta oltre sessant’anni di storia del costume, tra battaglie civili e modelli culturali, e soprattutto di storia del vissuto segreto degli italiani: le fantasie erotiche, i gusti sessuali, la dimensione del bello e del piacere. Perché questo è il sesso che lui ha sempre cercato di proporre ai suoi lettori, attraverso Playmen, Playboy, Excelsior, Penthouse: non tormento ed estasi, peccato e trasgressione, ma gioia, sorriso, libertà.

Partiamo dal titolo del tuo libro, “Il principe dell’eros”. Che poi, naturalmente, sei tu. Come nasce questo appellativo?
Ero con amici a piazza Trilussa, a Trastevere. Stavamo sfogliando il nuovo numero di Excelsior, mensile che avevo ideato con la complicità dell’editore Saro Balsamo e che costava il prezzo spropositato di 10 mila lire (era l’86). Stavamo commentando, vicino alla fontana, il bellissimo servizio fotografico di Mimmo Cattarinich su Trastevere di notte. Vicino a noi, alcune persone avevano lo stesso giornale. Quando ci siamo accorti che anche loro ne stavano parlando, abbiamo taciuto per orecchiare. «Il direttore Massimo Balletti è bravissimo», diceva uno. «È proprio un direttore coi cazzi» diceva un altro. E il terzo, in napoletano: «Chille? Chille è ‘u principe dell’eros». Io inebetito. Mai avuto un riconoscimento più gradito.

Non ti ha mai disturbato l’essere indelebilmente associato alla stampa erotica? Tu hai lavorato in tanti giornali, ti sei occupato dei più vari argomenti…
Ma quello che ho fatto nel campo dell’editoria erotica è stato preponderante, dunque è una sorta di marchio. Di cui vado fiero. Ho passato tanti anni divertendomi, partecipando alla cultura internazionale, imparando moltissimo. E mi piace pensare che per esempio, con Excelsior, per la prima volta in senso assoluto l’immagine prodotta in Italia è potuta diventare fenomeno da esportazione: Germania, Giappone…

Tu e i tuoi giornali – “Playmen” di cui sei stato caporedattore, e poi “Playboy”, “Excelsior”, “Penthouse” che hai diretto – come eravate considerati dal resto del mondo giornalistico? Non percepivi pregiudizi, un atteggiamento di biasimo, di sufficienza?
Sì, eccome. Ma erano degli imbecilli, persone piccole. Alcuni invece erano entusiasti, e si trattava proprio di chi non mi sarei mai aspettato di trovare al mio fianco. All’uscita di Excelsior ricevetti biglietti di congratulazioni da alti dirigenti della Rai, con frasi di simpatia e appoggio. Gli elogi, così come le ostilità, erano trasversali.

Ai giornali sexy-glamour collaboravano un po’ tutti…
Intanto Franco Valobra, colonna portante di Playmen, che godeva la stima incondizionata e l’amicizia anche di Leonardo Sciascia e Federico Fellini. E poi… da Emilio Servadio a Paolo Guzzanti, da Costanzo a Ugo Ojetti, e poi Gianni Brera che era il più grande giornalista sportivo italiano, Enrico La Stella, Ruggero Orlando che avevo avuto come direttore a ABC e a cui diedi una rubrica su Playboy. Tutti, ti dico, tutti. Poche donne, è vero. Ma in realtà le giornaliste e le intellettuali non ci attaccavano, anzi, erano incuriosite.

Qualcuno che non ha voluto collaborare?
Ricordo un episodio. Per il primo numero di Excelsior, feci scrivere un articolo su Gianni Agnelli a Giorgio Bocca. Uscì il giornale, l’articolo che era bellissimo fu osannato, ma Giorgio mi telefonò: «Massimo, tu mi dovevi spiegare meglio… non posso collaborare, è un po’ troppo per me». Interruppe la collaborazione, ma molto carinamente, serenamente.

Chi ti ha colpito di più, dei tantissimi intellettuali che hai incontrato?
Cesare Zavattini. Quando lo conobbi ero con l’editore Michele Immordino, che voleva fargli scrivere un libro. Sull’argomento “erotismo”, lui si esprimeva come avrebbe fatto un ragazzo di vent’anni. Sono rimasto letteralmente a bocca aperta a sentire questo vecchio signore della cultura italiana che parlava in modo così libero e spregiudicato. È stata la sorpresa più grande.

La parte culturale era fantastica. Articoli e interviste lunghissimi, particolareggiati. Piccoli saggi. Ma in verità non era solo un alibi, una scusa per mostrare donne nude? A meno che… le donne nude non fossero invece un modo per contrabbandare cultura…
Ti racconto una storia. Ero a Chicago insieme ai direttori delle varie edizioni nel mondo di Playboy. Io, nuovo, dissi un cumulo di sciocchezze, perché pensavo di dover integrare in qualche modo l’erotismo nella parte culturale, e Hefner replicò: «Quello che vuoi fare è un tentativo inutile. Cultura ed eros non devono essere necessariamente correlati, e il lettore non deve essere frastornato da un atteggiamento martellante sul sesso. Tutto deve avere un valore a sé stante. Basta che abbia valore». Che poi questa è la realtà dell’essere umano, che ha molte sfaccettature, ugualmente rilevanti.

Avete spogliato proprio tutte le donne famose? O qualcuna vi ha detto no?
Ci hanno detto no Mina e Raffaella Carrà. Gianni Boncompagni mi confidò che i giornali d’attualità lo tormentavano per avere almeno un’immagine osé di Raffaella, un topless, una trasparenza, ma lei niente, e devo dire che ha fatto bene. Dell’erotismo aveva capito tutto, molto più di tantissimi addetti ai lavori. Era erotica senza ammiccare, denudarsi, fare film maliziosi. Le proibirono di ballare il Tuca Tuca, proprio perché il ballo e lei erano erotici. Poi arrivò Sordi e disse «Facciamolo». Lei: «Non ce lo fanno fare». Lui: «Con me te lo fanno fare». Voleva dire: se io che sono il re della comicità ti dico di fare il Tuca Tuca con me, si vede che si può, perché, più della televisione, io rappresento il gusto dell’italiano medio. Infatti il Tuca Tuca si fece, e di quella scena ancora si parla.

Quali erano le dive che piacevano di più, che una volta nude erano garanzia di vendite?
Una sicurezza a Playmen era Carmen Russo. Il direttore Luciano Oppo organizzò cinque servizi, su di lei non si discuteva. Benissimo le Kessler nel Playboy diretto da Paolo Mosca, poi quando arrivai io le cifre si erano molto ridimensionate, la media dei compensi era di 10 milioni (prima si arrivava a cifre con cui potevi comprarti una bella casa, o anche due), ma arrivavano molti servizi interessanti dagli Stati Uniti: Joan Collins, Mariel Hemingway. Furoreggiava Laura Antonelli, e lei devo dire che era un tale fenomeno che potevi metterla in qualunque salsa, non necessariamente nuda. La sua immagine vendeva tanto anche se vestita completamente.

Facciamo una parentesi sulle battaglie civili. Perché le riviste erotiche sono state anche questo: fiancheggiatrici di importanti battaglie civili.
La prima è stata quella per il divorzio, patrocinata mediaticamente dal settimanale ABC, editore Sabato, quando io ancora non ero arrivato al giornale. Insieme con i radicali e le forze più intelligenti e moderne dell’area di sinistra del Paese si riuscì a far approvare questa famosa legge. Mi ricordo poi, su ABC, che pubblicammo un enorme dossier fatto di lettere dei separati che raccontavano la loro angoscia per l’impossibilità di uscire da situazioni terribili e aspirare a una vita migliore. Ci fu anche la partecipazione alle lotte per l’aborto, altra battaglia di ABC (che vendeva 500 mila copie, va sottolineato). E la chiusura degli ospedali psichiatrici, l’appoggio alla legge Basaglia a cui abbiamo partecipato un po’ tutti, ABC, il Men degli inizi che aveva un garbo diverso rispetto ad ABC, era meno barricadero e popolare e più internazionalista e culturale. Tutto quello che riguardava l’emancipazione civile era appannaggio dei settimanali, mentre i mensili trattavano di costume, eros, leggiadria, psicoanalisi (divulgata da personaggi come Franco Valobra). Perché il settimanale per sua natura incide maggiormente, il mensile ha meno forza coinvolgente e più capacità di intrattenimento.

Hai parlato di “ABC” e di “Men”, settimanali che poi hanno virato verso la pornografia. C’è questa vecchia diatriba tra erotismo e pornografia per cui molti sostengono che l’erotismo (mediatico) sia solo pornografia mascherata, roba da bavosi ipocriti, mentre la pornografia sarebbe libertà. Tu che ne pensi?
Che è una colossale bugia. La pornografia, da cui non è che voglia prendere le distanze, per carità, va riconosciuto che nasce come prodotto commerciale, non di liberazione, e ha questa cifra distintiva: non implica alcun tipo di coinvolgimento emotivo, psicologico. È “un pettegolezzo su un grande mistero”, per usare l’espressione azzeccatissima di Flaiano. Cercava di dare qualcosa di diverso l’editore Milton, che per il suo giornale pornografico Private faceva realizzare servizi fotografici in situazioni lussureggianti e con tecniche straordinarie, come stesse preparando il National Geographic. Ma era un caso isolato. Io ho sempre sostenuto che la pornografia ha bisogno dell’eros, e l’eros della pornografia. Là dove esiste solo piattezza delle immagini non puoi sognare, perché quello che vedi nelle foto e nei video lo vivi tutte le notti, quindi che te ne importa? Un altro luogo comune da smentire è che la pornografia sia rivoluzionaria e l’erotismo conservatore. Esattamente il contrario. L’erotismo, a differenza della pornografia, deve fare i conti con la cultura del momento, ha rispetto per la sessualità e l’individualità, è vivo, è una ricerca, lo si tenta e sperimenta da secoli. E può anche essere torbido. Una persona vestitissima e addirittura cauta nel suo porsi può essere super erotica. Tornando alla Carrà, proprio con la sua innocenza apparente e per non essere mai stata catalogabile tra le rivoluzionarie dell’eros, è stata invece una che passo dopo passo, canzone dopo canzone, abito dopo abito, ha arricchito l’immaginario erotico, mettendoci, coraggiosamente, la faccia. Sono un inguaribile puritano? Sì.

Tu come hai scoperto il sesso?
Credo che sia stato il sesso a scoprire me. Ero un ragazzino abbastanza cattolico, educato dai gesuiti. Non ero un libertino ma sicuramente ero già un libertario, tenacemente aggrappato a ideali di società diversa. Dal punto di vista della sessualità, non avevo né dimestichezza né furori particolari, però mi ero turbato molto vedendo al cinema Martine Carol in Lucrezia Borgia, quando avevo undici anni. Da giornalista, sono stato subito attratto da questi fenomeni editoriali che venivano fuori dal ’68, Men soprattutto, ma anche il Giorno, il quotidiano, e avevo cominciato a vagheggiare di poter partecipare a questo fermento. Dopo essere diventato giornalista professionista, sono arrivato a Roma e sono entrato a Men, dove ho conosciuto persone incredibili, come Gian Carlo Fusco. Molti anni dopo, direttore di Playboy, fui severamente rimproverato dal mio editore Giorgio Mondadori perché mettevo Fusco ovunque “come il prezzemolo”, e allora si alzò Enzo Biagi e davanti a tutti disse: «No caro, Balletti ha ragione perché c’è uno solo in Italia più bravo di me, ed è Fusco».

In base alla tua esperienza ma anche per te Massimo Balletti, che cosa è diserotizzante?
La prepotenza, sia maschile sia femminile. E una persona che parla di sesso, maschio o femmina che sia.

Cosa pensi dei vari gusti particolari sessuali, delle varie “filìe” che sembrano moltiplicarsi? Ci sono sempre state e oggi possono uscire alla luce del sole, nascono per mancanza di desiderio autentico, oppure cosa?
Le perversioni o gusti particolari non mi hanno mai appassionato. Probabilmente molte nascono adesso dalla ricerca di nuove frontiere, visto che ormai la sessualità in molte sue forme è stata sdoganata, ma io mi fermo e mi allontano quando sento un incupimento. Il sesso per me è gaio, nel senso proprio di radioso.

Se tutto o quasi è stato sdoganato, come dici tu, non c’è davvero più nulla capace di provocare o scandalizzare?
Niente. Lo dico non so se con compiacimento o con tristezza. Però a pensarci una cosa c’è, ed è la bellezza. Non parlo del bello stilizzato, ma di quello che tocca nel profondo. Oggi c’è una grande necessità e insieme una grande paura di questa bellezza, capace di suscitare fantasia e passione. Una bellezza così, in questa società non può che dare scandalo.