«Nel vostro lavoro è di grande aiuto tutto ciò che vi fa sentire coesi: anzitutto il sostegno delle vostre famiglie, che vi sono vicine nelle fatiche. E poi l’incoraggiamento reciproco, la condivisione tra colleghi, che permettono di affrontare insieme le difficoltà e aiutano a far fronte alle insufficienze. Tra queste penso, in particolare, al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari – è un problema grave -, che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento. Quando le forze diminuiscono la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero».

Così parlava Papa Francesco pochi mesi fa, il 14 settembre 2019 in Piazza San Pietro, nel discorso rivolto al personale dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile. E concludeva con alcune frasi su cui meditare soprattutto nell’attuale congiuntura. È importante «fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, che siano garantite prospettive di riconciliazione e di reinserimento. Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro». Perché partire dalle parole di Papa Francesco per parlare della situazione carceraria nel nostro paese, oggi? La rivolta in corso avrebbe piuttosto a che fare con la paura del contagio da coronavirus e con la sospensione/limitazione dei colloqui, ben differente dall’impostazione più generale di Papa Francesco.

Non è così. C’è un aspetto della «crisi da coronavirus» che proprio i disordini nelle carceri fanno comprendere con grande evidenza: siamo interconnessi; volenti o nolenti lo siamo. Tutti. La società è un organismo collegato e quanto accade da un lato si ripercuote su un altro. In fondo, a pensarci bene, quell’antico romano Menenio Agrippa lo aveva scoperto oltre 2500 anni fa mentre a noi tocca dimenticarlo e riscoprirlo ogni volta. Le carceri diventano la cartina al tornasole dell’effettivo esercizio della giustizia, della «giustizia della giustizia» – per usare un bisticcio di parole, ma efficace. Quanto accade nella società civile in generale ha ripercussioni profonde nel mondo carcerario, come ben sanno quanti si occupano professionalmente della condizioni di vita dei detenuti. Annunciare un’amnistia e non realizzarla provoca sommosse nel mondo chiuso del carcere dove è profonda la risonanza di ogni evento. La paura del contagio da coronavirus esiste nella società civile italiana al punto che tutto il paese è «zona rossa»; e le carceri? Le dimentichiamo? I detenuti stanno lì a ricordare la loro esistenza proprio nei momenti in cui non vorremmo vederli. Gli invisibili diventano visibili in maniera evidente e drammatica.

Si può davvero pensare di limitare o cancellare le visite dei parenti senza che una misura del genere provochi conseguenze? In una situazione di privazione della libertà, dove le relazioni umane sono l’unico legame con «di fuori», si possono cancellare con un tratto di penna in nome della sicurezza e della salute? Possibile che non si pensi alle conseguenze di un isolamento che diventa doppio: carcerati due volte, esclusi dalla società e dalle relazioni con le famiglie. Si aggiunga poi la situazione di sovraffollamento cronica, la presenza di problemi sanitari molto forti (tossicodipendenze, disagi psichici), il numero di detenuti non italiani in crescita, e l’esplosione di una rivolta diventa un fatto prevedibile. Che fare? La cultura giuridica italiana ha – avrebbe – tutti gli elementi per rispondere se fosse capace di tenere alta l’attenzione sulle carceri. Prendo un solo dato dall’ultima relazione al Parlamento del Garante nazionale delle persone private di libertà. Notava l’accentuarsi di una «attenuazione» della cultura che vede proprio nel «graduale accesso alle misure alternative un elemento di forza nella costruzione di un percorso verso il reinserimento».

Già: il reinserimento. Chi se ne preoccupa più? Eppure è il vero e reale cuore della problematica, collegato al dovere che ha lo Stato di prendersi carico dei detenuti stessi, persone con percorsi e vissuti certamente difficili. A loro va data certezza nel mantenimento delle relazioni interpersonali e soprattutto speranza. Sì: speranza nel futuro, per arginare ansia, depressione, disperazione, sentimenti destinati a sfociare in suicidi e rivolte.  L’universo carcerario rinvia – se vogliamo ben vedere – una domanda su chi siamo noi, come società tutta intera. Come vescovo cattolico non posso non citare quel passaggio in cui Gesù spiega ai discepoli come comportarsi: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo 25,35-40).

Credo fermamente che in questi giorni di coronavirus-dipendenza, le parole del Vangelo possano fornirci una strada da percorrere. Ci parlano dell’importanza della solidarietà e dei rapporti umani. Raccontano di un mondo «interconnesso» già all’epoca della Palestina di Gesù. Le frasi del Vangelo proseguono e prolungano una tradizione religiosa, civile, giuridica, umana – pensiamo ai Dieci Comandamenti – in cui è sempre al centro il rapporto di ognuno di noi con Dio e con gli altri, con l’intera società. Nei momenti di tensione e di crisi la connessione diventa palpabile, evidente, e i problemi si affrontano sviluppando relazioni collaborative. Vale per tutti. Vale per la Chiesa, ad esempio, e difatti la parola-chiave del pontificato è «sinodalità»; un termine religioso che sottolinea l’importanza di camminare insieme cercando convergenze e intese, superando egoismi e visioni particolari, divisioni e scissioni per rispondere al progetto di Dio per l’umanità. Uno Stato, una società laica – che difende la pluralità delle posizioni e tutela minoranze e appartenenze – ha come parola chiave la presa in carico delle persone e dei gruppi sociali più deboli o minoritari, per far crescere socialità, cultura, educazione, senso della appartenenza e della comunità.

Le carceri sono la cartina al tornasole della capacità di esercitare una vera giustizia, dove la velocità del giudizio e la certezza della pena si coniugano con misure sagacemente pensate per recuperare le persone e reinserirle nella società. Lo snodo essenziale è la relazione: tutti sono protagonisti, dagli operatori dell’amministrazione alle famiglie dei detenuti, agli stessi detenuti. Vale per tutti, e anche nella carceri: isolamento non deve voler dire solitudine. Già dall’inizio della Bibbia c’è scritto: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Possono essere necessarie forme di isolamento: ma guai a favorire la solitudine! In questo campo delle carceri, a mio avviso, vanno trovate e investite risorse sulla formazione degli operatori, sul potenziamento del volontariato, sugli strumenti tecnologici che possano consentire ai detenuti di studiare e acquisire professionalità. E per il reinserimento nel mercato del lavoro una volta scontata la pena. Per dirla in breve: serve un progetto di società e dobbiamo chiederci – e chiedere alla politica, ai politici – che futuro abbiano in programma per tutti noi.

Ho visto con attenzione il passaggio televisivo in cui il presidente del Consiglio ha annunciato la «zona rossa Italia», chiedendo a tutti noi un sacrificio in vista del bene comune, dunque per il bene di tutti. In questo particolare momento ha enunciato un progetto di società. A breve, certamente, per uscire dall’emergenza sanitaria. Possiamo pensare di «esportare» il sacrificio di tutti in vista di un miglioramento collettivo anche per altre situazioni? Possiamo riscoprire legami di solidarietà tra di noi, che coinvolgano anche persone lontane o differenti? Possiamo coinvolgerci in un progetto di società di cui facciano parte gli anziani, i poveri, gli stranieri, i carcerati, gli ammalati? In una parola: possiamo diventare tutti un po’ più giusti cioè più fraterni, più solidali, aperti agli altri e non ripiegati nella rivendicazione esclusiva dei diritti individuali? Papa Francesco lo sa.

Non a caso – come ha confermato ieri scrivendo a Il Mattino di Padova – le meditazioni della Via Crucis di questa Pasqua vengono dalla parrocchia della Casa di Reclusione il Due Palazzi di Padova. «Ho scelto il carcere, colto nella sua interezza, ha detto il Papa, per fare in modo che, anche stavolta, fossero gli ultimi a dettarci il passo».