“La storia spiegherà”, la frase che fece tremare la giurisdizione e una riflessione sulla separazione delle carriere

C’è un paradosso nella giustizia italiana che da anni alimenta discussioni e polemiche: la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Chi la sostiene la considera una condizione necessaria per tutelare i cittadini e garantire un giudice davvero indipendente; chi la osteggia, come Piercamillo Davigo, la descrive come un pericolo per l’equilibrio dell’ordinamento. Secondo Davigo, se i PM e i giudici appartenessero a corpi distinti, il rischio sarebbe quello di rafforzare l’accusa: un pubblico ministero “separato” potrebbe usare il potere d’indagine per intimidire i giudici più indipendenti, chiedendo a un collega di indagare su chi emette provvedimenti sgraditi. Un timore che, a ben vedere, già a carriere unite può tradursi in realtà, anche senza alcuna separazione formale. Chi conosce gli attuali meccanismi di funzionamento della giustizia, sa bene che già oggi il potere del pubblico ministero è enorme, superiore a quello dei giudici, e che la mancanza di una netta distinzione di ruoli può favorire forme di pressione su chi esercita la giurisdizione.

La storia di Giuseppe Valea

La storia che raccontiamo si colloca nel Distretto di Catanzaro e riguarda il giudice Giuseppe Valea, allora Presidente del Tribunale del riesame, e i magistrati in servizio in quella Sezione penale. La frase che accese la miccia è: “…poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”. La storia, appunto. Tutto nasce da una frase. Siamo nel gennaio 2021. Il procuratore della Repubblica pro tempore – figura di peso e grande visibilità mediatica – viene intervistato dal giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi. Gli si chiede come mai tante delle sue richieste di misure cautelari, accolte in prima battuta dai giudici per le indagini preliminari, vengano poi bocciate o ridimensionate dal Tribunale del riesame, all’epoca presieduto proprio da Giuseppe Valea, o nei diversi gradi di giudizio. Il procuratore non risponde con una spiegazione tecnica o giuridica. Allude solo, lapidario: “Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi – conclude – se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”.

Una frase apparentemente anodina, ma dal peso specifico altissimo. Non è un caso, infatti, che i contenuti di quella intervista finiranno al vaglio del CSM, spaccandolo nel suo interno. E che, oltre all’insurrezione dell’avvocatura penalista, indurrà anche l’esecutivo di Magistratura Democratica a prendere le distanze da quelle parole, esprimendo preoccupazione per le affermazioni rese, tanto da scrivere: “Non crediamo che la comunicazione dei Procuratori della Repubblica possa spingersi fino al punto di lasciare intendere che essi siano gli unici depositari della verità, e di evocare l’immagine del giudice che si discosti dalle ipotesi accusatorie come nemico o colluso”. Perché “la storia spiegherà” implica che c’è qualcosa da spiegare, che le decisioni di quel Tribunale (e/o dei giudici di merito) non siano semplicemente frutto di un diverso convincimento giuridico, ma il prodotto di qualcosa di “equivoco”, di opaco. Una sentenza. È come se, tra le righe, si dicesse: un giorno capirete perché quei giudici hanno deciso così.

Aria pesante nel Tribunale di Catanzaro

Nei giorni in cui quella frase finisce sui giornali, nel Tribunale di Catanzaro si respira aria pesante. Un clima del sospetto. Pochi giorni dopo, due giudici del collegio del riesame si recano (separatamente) alla Procura di Salerno – competente per i procedimenti sui magistrati calabresi – per rendere dichiarazioni riguardanti il presidente Valea. Affermano, in particolare, di non ricordare se una certa decisione, favorevole all’indagato, depositata a distanza di molto tempo proprio da Valea e rimbalzata dagli organi di informazione, fosse stata effettivamente presa in camera di consiglio e collegialmente. Un’amnesia e condotta singolare, visto che gli stessi magistrati ammettono, comunque, davanti ai PM salernitani di avere ricordi sbiaditi e, in particolare, uno, di non ricordare se vi è stata la camera di consiglio, né il giorno dell’udienza né successivamente, e se vi è stata di non ricordare la decisione presa; l’altro, di non essere in grado di escludere che la camera di consiglio si sia realmente fatta. Non solo. A domanda dei requirenti, aggiunge uno dei due giudici di non avere memoria di colleghi che lamentassero il deposito di provvedimenti redatti dal dott. Valea senza che fossero stati discussi in camera di consiglio. Di ricordare, invece, di divergenze insorte sulla decisione da assumere collegialmente, sebbene poi si sia sempre giunti a una soluzione secondo le modalità previste dalle norme del codice. In un contesto già attraversato da tensioni, a quelle dichiarazioni, apparse come una forma di autodifesa preventiva, seguì una processione di giudici e cancellieri verso la procura di Salerno, con effetti devastanti, quali: incrinare la fiducia reciproca, alimentare il sospetto, rendere ancora più fragile l’autonomia della giudicante.

Nei mesi successivi, le indagini condotte a Salerno nei confronti di magistrati e avvocati per un presunto malaffare nella giurisdizione – poi archiviate – rivelano un quadro inquietante. Non solo per la dimensione dell’inchiesta che si allargherà a macchia d’olio sui vari uffici giudiziari e attori del pianeta giustizia, ma anche per le intercettazioni di magistrati (già in essere dal 2020), nelle loro stanze e talvolta persino nelle camere di consiglio, cioè nei luoghi più sacri della deliberazione. Non è un caso che si sia registrata, a seguire, la diaspora dal Tribunale di Catanzaro della quasi totalità dei magistrati allora al riesame.

Quando la paura entra nella giurisdizione

In un simile scenario, come può un giudice lavorare serenamente, sapendo o sospettando che ogni sua decisione può diventare oggetto di indagine, di attenzione, di illazione? Quando la paura entra nella giurisdizione, il rischio è che il giudice, pur di non essere “equivocabile”, tenda a conformarsi alla posizione più prudente: quella dell’accusa. Non per convinzione giuridica, ma per istinto di sopravvivenza. È in quel momento che la terzietà del giudice smette di essere reale e diventa solo un principio astratto. È su questo sfondo che il dibattito sulla separazione delle carriere assume un significato diverso. Non come scontro ideologico tra “giustizialisti” e “garantisti”, ma come questione di libertà interna alla magistratura. Se oggi un PM può di fatto condizionare, anche solo con una frase e il peso della sua influenza (anche e solo mediatica), la serenità di un giudice, allora la separazione non è un rischio, ma una necessità. Perché solo in un sistema dove il giudice non appartiene alla stessa carriera, non risponde agli stessi vertici, non teme le stesse conseguenze disciplinari del PM, può esserci una vera indipendenza reciproca. Non si tratta di indebolire l’accusa, ma di rafforzare la giurisdizione. Un giudice forte non è quello che condivide la linea del PM, ma quello che può smentirlo senza temere di poter subire conseguenze.

Paradossalmente, la storia del giudice Valea non finisce con la frase del procuratore o con le prime dichiarazioni dei colleghi. Si apre un procedimento penale a suo carico per falso: in sostanza, si contesta che le decisioni collegiali – in tutto sei provvedimenti, nei quali Valea era anche relatore, emessi in tanti anni di servizio e una mole di lavoro enorme – non sarebbero state effettivamente prese in quella forma, sulla base proprio delle dichiarazioni rese dai magistrati del suo ufficio. Nessuna accusa grave di corruzione o concussione, nessun abuso d’ufficio. Solo una vicenda processuale “singolare”, che agli occhi di molti sembra essere una “toppa” per dare giustificazione a un’inchiesta rivelatasi un flop. “La storia spiegherà”, aveva detto il procuratore. E forse, davvero, la storia dovrà spiegare se, in un sistema che proclama l’indipendenza della magistratura, sia normale tutto ciò che è accaduto. È il riflesso di una tensione strutturale, di un disequilibrio interno alla magistratura che da anni mina la fiducia nella giustizia. Un sistema in cui il PM dispone di un potere investigativo vastissimo e, nello stesso tempo, appartiene allo stesso corpo del giudice chiamato a valutare le sue richieste. Un sistema dove, se il giudice definito “garantista” dai suoi colleghi si discosta dalle attese del PM, può essere indicato pubblicamente come soggetto “equivoco”, creando fibrillazione tra i giudicanti. Ed è proprio per evitare questo cortocircuito che la separazione delle carriere dovrebbe essere vista non come una rottura, ma come un atto di igiene democratica.

Separare non significa dividere i destini, ma chiarire i ruoli. Significa restituire al giudice quella serenità che oggi può essere soffocata dal timore di essere frainteso, controllato, o – peggio – punito. Forse, davvero, la storia spiegherà. O forse, nel tempo, ha già spiegato, viste le centinaia di provvedimenti liberatori via via emessi (tra ordinanze cautelari e sentenze di assoluzione). Ma quando lo farà, sarebbe bene che non ci trovasse ancora giudici costretti a scegliere tra la serenità e il timore di essere indagati.