Oggi, martedì 12 maggio, sotto l’usbergo dell’emergenza, verrà dato, subdolamente, l’ennesimo colpo di maglio alla nostra democrazia rappresentativa. Sarà posto in votazione, e probabilmente approvato dalla sola maggioranza, l’ «emendamento barboncino», il quale prevede che, nell’uso dei Dpcm, il presidente del Consiglio potrà, sempre che le condizioni lo consentano, chiedere un parere preventivo al Parlamento sullo schema di decreto che intende adottare. Parere di cui “tenere conto”, nella successiva emanazione. L’intenzione sembra confermata dallo stesso presidente del Consiglio che, intervistato dal Corriere della sera, ha dichiarato: «In questa nuova fase avremo maggiore agio di coinvolgere il Parlamento». “Agio” (“comodità” “trovarsi a proprio agio”: dizionario Treccani) che non era consentito nella fase 1 a causa «dell’estrema urgenza di intervenire per salvare le vite».

“Finalmente!”, si potrebbe dire. Con questo emendamento la democrazia è restaurata dopo la necessaria sospensione delle prime settimane. In realtà siamo in presenza di un gioco di prestigio, di una evidente manifestazione del bi-pensiero (George Orwell, 1984): «Avere piena coscienza di tutta la verità e raccontare menzogne costruite ad arte (…), sostenere a un tempo due opinioni che si negano a vicenda, sapere che si contraddicono e considerarle valide entrambe, (…) convincersi che la democrazia sia impossibile e al tempo stesso che il Partito sia il custode della democrazia, (…) essere coscienti di provocare l’incoscienza…». E cosa c’è di più “bipensato” di un emendamento che sembra regalare democrazia nel momento stesso in cui la nega?

Perché all’apparenza il Parlamento ne guadagna. Può pronunciarsi, far valere la sua voce, indirizzare le scelte del Governo. Peccato, veramente peccato, che il meccanismo funzionerà solo quando è inutile: se ci sono ragioni di urgenza (improbabile certo in periodo di emergenza!) il presidente potrà evitare di chiedere il parere; se ci sono orientamenti parlamentari diversi, il presidente dovrà “tenerne conto”, ma potrà fare come ritiene più opportuno. Il Parlamento insomma non deciderà nulla, può solo limitarsi a postulare, auspicare, chiedere. Ma non può pretendere niente.  Una volta i Parlamenti decidevano, oggi si limitano a implorare. Ma c’è la responsabilità politica. Si dirà: se va contro l’indirizzo del Parlamento il governo ne pagherà le conseguenze. Certo, come può sempre pagare le conseguenze dei propri atti in un regime parlamentare. Peccato che nel frattempo i cittadini saranno vincolati dalle decisione del presidente del Consiglio non da quella, dal medesimo ignorata, del Parlamento. Parlamento che, a differenza che per i decreti-legge, non deciderà mai su quei provvedimenti. Né prima, né dopo. Mai.

E, poi, non ci era stato detto che il Dpcm fosse l’unica strada per far presto, in quanto, per approvare i decreti-legge, si sarebbe dovuto, invece, convocare un Consiglio dei ministri? Com’è che oggi si può convocare persino il Parlamento, ma di abbandonare i Dpcm nemmeno se ne parla? L’emendamento che riduce il Parlamento a un cagnolino di compagnia, che può tutt’al più abbaiare, ma non morde, non è solo inutile e offensivo della Costituzione, che ben altro prevede, per i rapporti tra governo e Parlamento, anche in epoca di emergenza (non certo la dittatura commissaria, così ben studiata, tra gli altri, da Carl Schmitt). È anche dannoso, gravemente dannoso, perché mentre dà poco, pochissimo, al Parlamento, toglie fiato alla critica dell’intero strumentario che abusivamente è stato messo in piedi in questi mesi.

È la classica foglia di fico (e il riferimento è solo al frutto, sia chiaro) che prova a legittimare l’esistente e consegnare all’oblio (“essere coscienti di provocare l’incoscienza”, riecco il bipensiero) la memoria degli strappi, delle forzature, delle vere e proprie violazioni della Costituzione. Il presidente del Consiglio ha perso una grande occasione. Finita la fase 1, in cui l’emergenza ci ha travolti, avrebbe potuto annunciare il ritorno alla legalità costituzionale dell’emergenza. E, invece, con benevolo sussiego (e trincerandosi verso un non meglio precisato “noi”, che suona tanto plurale maiestatico: “quello che usano solenni e alte autorità, come re e pontefici: sempre Diz. Treccani) ha deciso, serenamente e pacatamente, di gettare un osso al barboncino.