Dal 1° gennaio improvvisamente si è deciso che a pagare il conto non sia più lo Stato il quale, a fronte di un mare di inefficienze quasi impossibili da sradicare, ne ha girato il costo sulle spalle degli imputati serrando le porte del processo praticamente senza fine e buttando via la chiave. Il sistema garantisce solo un grado di giudizio, forse due, per il resto si è chiamato fuori dal problema con vaghe promesse di un mondo nuovo in cui nessuno, invero, crede. Nel furore della polemica qualcuno ha anche pensato di poter accollare il prezzo sui magistrati suggerendo di mandare sotto procedimento disciplinare tutti i “rei” dei ritardi, tutti quelli che non dovessero rispettare i nuovi protocolli e le nuove scadenze del nuovo mondo.

Ovviamente l’Anm è insorta all’unisono con una buona dose di ragione e, dopo varie oscillazioni e un po’ di confusione, sembra aver deciso che – a ben considerare – sia tutto sommato meglio girare il pacco agli imputati anziché ai giudici. Soluzione un tantino, come dire, corporativa, ma si tratta pur sempre di un sindacato ed é giusto che faccia il proprio mestiere.

In attesa che venga alla luce un improbabile sindacato degli imputati che, badate bene, correrebbe subito a solidarizzare con i giudici (nessuno vorrebbe essere giudicato da un magistrato strangolato disciplinarmente se non si sbriga a decidere), non resta che riconsiderare quali siano le ragioni profonde e le matrici ultime di una riforma che – come ha ricordato bene il procuratore di Catanzaro pochi giorni or sono – doveva solo servire a porre il tema della celerità dei processi e non a rendere perenne il limbo del processo scatenando una guerra tra sommersi e salvati.