Rapimento Moro: PCI campione di fermezza, ma il suo mondo non sempre comprendeva

anni 70' archivio storico Giulio Andreotti (Roma, 14 gennaio 1919 – Roma, 6 maggio 2013) è stato un politico, scrittore e giornalista italiano. È stato tra i principali esponenti della Democrazia Cristiana, partito protagonista della vita politica italiana per gran parte della seconda metà del XX secolo. nella foto: Giulio Andreotti e Aldo Moro Busta n° 589/2

Caro Chicco,
c’è un momento della storia del Pci che non abbiamo raccontato. Cruciale, perché fu all’origine della “seconda svolta di Salerno” nell’autunno 1980, che traghettò il PCI dal compromesso storico all’alternativa democratica. La data fatidica è il 16 marzo 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro e dell’uccisione della sua scorta.

Verso le 9.15/9.20, io mi stavo avviando a piedi dalla mia casa di via Tacito verso via della Vite, sede della direzione nazionale della FGCI: ero sempre uno dei primi ad arrivare in ufficio. Avevo appena preso caffè e ciambellone in un bar di via Tomacelli quando, all’angolo con via del Corso, notai un certo trambusto, con macchine della polizia che, a sirene spiegate, si dirigevano – immaginai – verso la Camera dei deputati. In mattinata si sarebbe svolto il dibattito sulla fiducia al nuovo governo Andreotti, che il PCI avrebbe sostenuto con un voto di benevola astensione. Ma il numero di auto e camionette in circolazione mi sembrò eccessivo. Ci volle poco per capire che era successo qualcosa di importante: nei primi minuti si sparse la voce che era stato ucciso Aldo Moro, solo dopo un po’ si capì che era stato rapito.

Come era mio dovere, corsi subito in sede, con gli altri presenti facemmo qualche prima telefonata per saperne di più, poi decidemmo di andare a Botteghe Oscure per “prendere la linea”. Seguirono ore concitatissime, nelle quali per prima cosa il Partito decise di rompere le incertezze sul voto al governo, consentendo la sua nascita (ai vertici non piacevano certi ministri poco digeribili). Parallelamente si dette il via ad una mobilitazione generale, spingendo tutte le organizzazioni di partito a programmare manifestazioni unitarie con le altre forze politiche costituzionali, cosa che avvenne già dal pomeriggio in tutte le città d’Italia, con le bandiere del PCI e della DC che si mescolavano tra loro, penso per la prima volta dopo la Liberazione.

Da allora al 9 maggio, giorno del ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani, l’Italia visse forse il momento più drammatico della sua storia democratica. I terroristi avevano nelle mani il destino del Paese e utilizzavano l’uomo preso in ostaggio per ricattare la Repubblica, per riscriverne la storia, imporre la loro agenda comunicativa, dividere le forze politiche. E ci riuscirono, almeno in una certa misura. Perché, a fronte della compattezza che DC e PCI mostrarono fino alla conclusione drammatica del rapimento, nel Paese si creò un fronte “umanitario” per salvare la vita a Moro, quindi apertamente favorevole a trattare con le Brigate Rosse la sua liberazione, addirittura mostrando una certa comprensione quantomeno per le ragioni che motivavano le loro azioni. Si arrivò al punto che il più prestigioso tra i filosofi italiani, Norberto Bobbio, disse che non stava “né con lo Stato, né con le BR”, mentre Leonardo Sciascia denunciò la perdita del “principio di pietà” della politica.

Sul fronte dei partiti, il PSI si schierò esplicitamente per la trattativa, occupando uno spazio nel quale già si muovevano gruppi estremisti ed extraparlamentari, più o meno contigui alle BR, e settori del mondo cattolico. Anche nella FGCI albergavano sentimenti diversi, soprattutto intorno alla “Città Futura”, settimanale fondato nel 1977 con l’ambizione di dialogare con i cani sciolti della sinistra, gli indiani metropolitani, i vari nuclei creativi, i collettivi femministi, le radio libere, insomma con tutti coloro che contestavano anche violentemente il PCI e la sua politica. Era un bel gruppo quello della Città Futura. Il giornale lo dirigeva Nando Adornato, suo vice mi pare era Mauro Felicori, ci scrivevano (vado a memoria) Federico Rampini, Maria Chiara Risoldi, Mauro Ilardi, Massimo De Angelis, Alberto Flores D’Arcais; ispiratore della linea era Gianni Borgna, nel partito l’esperimento piaceva a Ingrao. Poco da dire: bella gente, e apprezzabile il tentativo di aprirsi a settori giovanili che non volevano più saperne del PCI. Ma la mia è una valutazione e un’autocritica (molto) postuma, perché all’epoca il tetragono asse napoletano-milanese della FGCI, di cui ero parte, non tollerava questo movimentismo in salsa romano-bolognese, e il dibattito interno tra noi, sostenitori della fermezza, e i trattativisti del giornale, era davvero aspro, con D’Alema che faceva da punto di equilibrio.

Il fatto è che si avvicinava il congresso nazionale della FGCI, che si sarebbe tenuto a Firenze dal 20 al 23 aprile, e non era immaginabile che l’organizzazione si presentasse non dico spaccata, ma neppure incerta sulla linea. Così il partito prese in mano la faccenda, ci furono diverse riunioni in preparazione dell’assise, e quale fu la decisione conclusiva? Che il discorso di punta contro le Brigate Rosse e la riaffermazione della assoluta fermezza contro il terrorismo, sarebbe stato tenuto dal più dubbioso sulla linea, dal più movimentista di tutta la FGCI, cioè dal compagno Ferdinando Adornato. Tipico dello stile del PCI. Sei contrario alla linea? Bene, allora la esporrai tu, e dovrai farlo bene. Nando fu bravo, si sparò un comiziaccio, e la FGCI chiuse in gloria il congresso, unita contro ogni deviazionismo. Mentre i brigatisti avrebbero deciso, di lì a qualche giorno, l’uccisione di Aldo Moro.

***

Caro Claudio,
me lo ricordo bene anche io quel 16 marzo del 1978. Tra di noi imperversava la discussione sul possibile appoggio al Governo Andreotti, e come al solito eravamo divisi fra “responsabili” e “identitari”. Si vabbè il compromesso storico, ma un Governo guidato da Belzebù Andreotti, proprio lui, e con in più una lista di ministri che era trapelata e che era uno spaccato della vecchia DC, non si poteva sentire. Ma come al solito saremmo stati pronti al sacrificio e a sostenere quello che il Partito avrebbe deciso.

Arrivai in ufficio un po’ prima delle 10, allora lavoravo all’ARCI di Milano, e la voce si era già diffusa, anche se, vado a memoria, non era chiaro se Moro fosse ancora vivo o fosse anche lui stato ucciso nell’agguato. Il primo interlocutore che trovai era un compagno che seguiva lo sport. Tipo un po’ strano, sempre vestito in tuta, quasi a rimarcare il suo ruolo. Il suo commento fu agghiacciante: “Bene, così il Governo va a carte quarantotto”. Alle due del pomeriggio fu invitato a raccogliere le sue carte e liberare l’ufficio e non lo ho mai più rivisto. Il PCI poi decise di appoggiare la nascita del Governo, astenendosi per dare un segno di stabilità e di reazione al rapimento. Che ci fosse un legame fra il rapimento e le azioni in corso per stabilire rapporti fra il PCI e il Governo fu subito chiaro. Fra i brigatisti era prevalsa la linea del “tanto peggio tanto meglio”, tutto pur di impedire la normalizzazione del PCI e forse tante altre ragioni che non sono mai state chiarite completamente.

Il PCI, come ricordi, sposò subito la linea della fermezza. Nel suo codice genetico vi era fra le altre cose un rifiuto inossidabile di ogni forma di estremismo, tanto più quando esso rivestiva forme violente. L’estremismo di sinistra _ persone che pretendevano di parlare in nome della classe operaia – rappresentava un nemico da sconfiggere ad ogni costo. Avevamo subito la ferita indelebile della cacciata di Lama ad opera di varie formazioni estremiste, soprattutto Autonomia Operaia, dall’Università di Roma, ed in ogni corteo formavamo servizi d’ordine per mantenere l’ordine. Ma vi era un miscuglio di idee diverse, di amicizie nate sui banchi dell’Università o nelle case che condividevamo, che era difficile separare in modo netto: il cosiddetto “album di famiglia” come lo avrebbe definito Rossana Rossanda.

Anni dopo ho saputo di persone – anche una collega nella scuola dove avevo insegnato – finite sotto processo per azioni di fiancheggiamento di formazioni armate. “La meglio gioventù”, il film in vari episodi di Marco Tullio Giordana, racconta bene quell’ambiente, quelle amicizie, quell’idealismo che travalicava ogni limite e sconfinava in una pretesa rivoluzione, che fu solo violenza senza scopo e senza possibilità alcuna. Se c’è una cosa di cui sono grato al PCI è proprio invece il fatto di avere costituito un argine insuperabile prima di tutto contro ogni estremismo ideologico e poi contro ogni violenza, ed essere stato in questo un punto di riferimento e un riparo per tante persone che lo hanno seguito.

Peraltro, ogni ambiguità fu poi spazzata via dall’assassinio di Guido Rossa, avvenuto a Genova l’anno dopo. Rossa era iscritto al PCI ed era un sindacalista della FIOM. Una persona per bene, un uomo serio che testimoniò, come era suo dovere, contro un collega di lavoro che diffondeva i volantini della Brigate Rosse dentro la fabbrica. Rossa per questo fu ucciso, perché rappresentava l’emblema dell’operaio comunista. Non era un democristiano, un padrone, un magistrato, un finanziere. Era uno di noi, meglio di noi. Da allora più nessuna ambiguità fu possibile. Le linee di demarcazione risultarono nette. E il terrorismo rosso fu sconfitto.