L'opinione
Scontro su processo telematico è pretesto per battaglia politica di parte
Ritengo spropositato l’allarme suscitato dai nuovi contagi registrati presso il tribunale di Napoli di cui si è appreso in questi giorni, giustappunto nel corso dell’accavallarsi più recente delle disposizioni dei vertici giudiziari in vista della ripresa dei processi civili e penali. Non per aggiungermi, in alternativa, al coro delle sacrosante proteste contro l’emarginazione reale del diritto di difesa attraverso la spersonalizzazione telematica del processo penale: a mio modo di vedere tali proteste mancano infatti di trarre le conclusioni cui dovrebbero pervenire. Mi riferisco alla funzione giudiziaria intesa come servizio pubblico essenziale e a ciò che discende da tale concetto anche in regime di emergenza sanitaria. Esso ha imposto nelle scorse settimane il sacrificio addirittura della vita a medici e infermieri; ha esentato da qualsiasi chiusura ed esposto così a rischi di contagio assai maggiori non solo gli operatori commerciali nel settore degli alimentari, ma anche ferramenta e persino tabaccai.
Trovo perciò immorale che non abbia imposto allo stesso modo la prosecuzione ininterrotta di tutti, dico tutti, i processi civili e penali. Né il servizio pubblico essenziale di giustizia può tollerare mediazioni al ribasso. Come quelle con cui vengono turlupinati, per esempio, i principi costituzionali di ragionevole durata del processo e di presunzione di non colpevolezza prevedendo limitatissime deroghe (il più delle volte solo astratte) alla prassi generalizzata dei rinvii d’ufficio; principi costituzionali infatti sostanzialmente rinnegati – con la complicità oggettiva degli avvocati – attraverso la sospensione dei termini della prescrizione, di custodia cautelare, di conclusione delle indagini e così via.
I difensori – quali privati esercenti un pubblico servizio – avrebbero altrimenti dovuto pretendere, senza condizioni, la continuazione indifferenziata delle udienze, riservando al dopo ogni sacrosanta critica relativa alla prevedibile inadeguatezza delle misure di contenimento del rischio di contagio; la stessa inadeguatezza con cui comunque continueremo a misurarci anche nella fase di ripresa. Proprio come i medici che non hanno assistito i malati anche se le mascherine erano inadeguate e in numero insufficiente. Dunque anche a costo che pure gli operatori di giustizia paghino un prezzo di morti. Senza che il contagio di questo o quel magistrato potesse affatto legittimare – non è accaduto solo a Napoli – quel generalizzato, isterico sciogliete le righe che subito poi ci ha paralizzato.
Senza perciò che il pessimo esempio di troppi magistrati e cancellieri – tranne rare eccezioni latitanti come fossero in vacanza – venisse immediatamente emulato da un’avvocatura tremebonda, succube della cultura del rinvio e soprattutto ignara del proprio ruolo e delle responsabilità sociali correlative, certo non inferiori a quelle di tabacchini e ferramenta. L’avvocatura pagherà tale ignavia con l’ulteriore emarginazione nell’ambito del servizio pubblico di giustizia e, più in generale, con la perdita di peso politico e culturale: non li si può rivendicare solo a chiacchiere. Ma non andrà meglio ai magistrati ed ai funzionari.
Quella che viene oggi messa in discussione è la stessa rilevanza civile e sociale della funzione giudiziaria sicché a torto immaginano di non doverla difendere a propria volta insieme a quel protagonismo culturale e sociale che da essa riverbera a loro vantaggio. Si spiega così l’increscioso avallo con cui l’avvocatura ha legittimato in queste settimane, tra l’altro, il diffuso ventisettismo dei dipendenti pubblici loro interlocutori nell’ambito della funzione giudiziaria, specie quando fittiziamente giustificato evocando quello smart working in realtà impraticabile in ragione della notoria arretratezza e segnatamente dalla non accessibilità da remoto dei sistemi informatici giudiziari.
Sono pertanto contrario a qualsiasi ipotesi di astensione degli avvocati anche laddove gli uffici giudiziari non provvedano a dotarsi, in vista di lunedì prossimo, dei banali accorgimenti organizzativi di cui si discute in questi giorni: gli stessi giù in uso altrove nel rispetto di scontate misure di igiene, da sempre ignorate eccezion fatta per i locali riservati a magistrati e alti funzionari, a cominciare da bagni e ascensori. Sono allo stesso modo fermamente contrario a qualsiasi finta ripresa. Indico come tale la celebrazione di udienze che – invece di spalmare nell’arco di mattina e pomeriggio, sabato compreso, il carico ordinario di un ruolo frattanto ulteriormente appesantito dall’arretrato accumulato nei due mesi trascorsi – si prefigga il contentino formale di sbrigare una porzione irrisoria di tale carico selezionata con criteri sempre altamente opinabili lasciando così addirittura peggiorare l’accumulo incontrollato di arretrato.
D’altra parte in una qualsiasi aula di udienza del nostro Palazzo di Giustizia basta già solo fissare i processi a scaglioni orari per ridurre il rischio di contagio a livelli senz’altro assai inferiori a quello cui ci sembra altrimenti del tutto naturale siano state a tutt’oggi ininterrottamente esposte quelle cassiere dei supermercati che nessuno di noi ha smesso di frequentare in queste settimane di lockdown. Nessun Paese civile d’altra parte può davvero attendersi la ripresa dell’economia, delle attività produttive e della stessa vita sociale senza la garanzia di un servizio di giustizia che solo in Italia risulta oggi in ginocchio, ridotto all’impotenza, ancora più malconcio ed inefficiente di quello che anche prima dell’emergenza sanitaria era pacificamente ritenuto già carente e inadeguato.
Sicché – senza certo rinunziare a tutte le misure di protezione – è necessario affrontare anche gli inevitabili rischi cui ci esporrà una effettiva ripresa dell’attività giudiziaria se degna di tal nome. A meno di non abdicare forse irreparabilmente innanzitutto ai nostri doveri; al senso stesso della funzione giudiziaria di cui avvocati, magistrati e funzionari sono motori e non solo attori indispensabili; al ruolo essenziale che la Giustizia deve continuare a svolgere nel nostro Paese se vorremo continuare a ritenerlo civile.
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