E' tornato alla ribalta Tony
Blair e D’Alema, Rubbi e Aliyev: i tanti mondi che s’incrociano dopo il crollo del comunismo
Caro Chicco,
hai visto che è tornato alla ribalta Tony Blair? Pare che avrà un ruolo di rilievo nel piano di pace in Medio Oriente, e speriamo che possa aiutare quell’area infuocata a darsi un futuro e una nuova governance. Tu dirai ma che c’entra Blair con i nostri racconti del Pci che fu? Beh, niente in senso stretto, molto se pensi che, in fondo, la gran parte dei nostri ricordi riguarda quello che il mondo di cui eravamo parte faceva o avrebbe dovuto fare (molto più spesso non faceva) per fuoriuscire dal suo perimetro tradizionale. E Blair, in quel percorso, ebbe la sua parte, posso testimoniarlo.
A un certo punto della tormentata storia del Partitone, dopo le convulsioni successive alla caduta del Muro, il cambio del nome, la vittoria di Berlusconi nelle elezioni, il PDS fece segretario D’Alema il 1° luglio del 1994. 20 giorni dopo, il Labour Party incoronò Tony Blair. Non c’era niente a tenere insieme i profili dei due. Figlio del Partito, comunista duro e puro D’Alema, messo lì – si pensava – per ridare identità al corpaccione squassato dalla “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto. Giovane avvocato in carriera Blair, già conservatore in gioventù, eletto leader dopo l’improvvisa morte di John Smith, talmente voglioso di cambiare il vecchio partito da chiamarlo “New Labour”. Ma i due erano quasi coetanei, comunque figli della stessa epoca, e dovevano entrambi far fronte a una domanda di fondo: come poteva la sinistra, dopo la caduta del Muro e l’affermazione del neoliberismo, restare competitiva?
Blair seppe dare rapidamente una risposta netta, con il “New Labour” e la Terza Via, una miscela di apertura al mercato e di attenzione sociale, costruita sull’esperienza di Bill Clinton negli Stati Uniti. D’Alema imboccò una strada meno luminosa e più complessa, puntando a costruire una sinistra post-comunista che potesse sopravvivere al crollo delle ideologie, tessendo pazientemente alleanze con cattolici e moderati, gettando le basi per l’Ulivo. Le differenze, come si sa, erano grandi anche nello stile. Blair era un leader mediatico, carismatico, capace di reinventare il linguaggio della politica con la stessa efficacia con cui ne ridisegnava i contenuti. D’Alema, in fondo, rimaneva uomo d’apparato, organizzatore e stratega, più forte nelle manovre parlamentari che nella comunicazione di massa.
Nel mio piccolo, impegnato a costruire lo staff di D’Alema, avevo Blair come una costante fonte di ispirazione, non solo sul piano politico, ma anche su quello organizzativo. Il leader del New Labour aveva messo su una squadra formidabile. Il suo inner circle era guidato dal Peter Mandelson, mente strategica, soprannominato “il principe delle tenebre” per il suo cinismo e la sua abilità nel marketing politico (licenziato lo scorso 11 settembre dal ruolo di ambasciatore britannico negli Stati Uniti per certe sue corrispondenze con Jeffrey Epstein… ma questa è un’altra storia). Accanto a lui Alastair Campbell, spin doctor e direttore della comunicazione. Il cervello economico era Gordon Brown, amico-rivale di Blair. E poi Jonathan Powell, ex diplomatico, Philip Gould, il sondaggista di fiducia, alla costante ricerca delle direttrici del consenso, e David Miliband, giovane intellettuale riformista che contribuì molto alla definizione della Terza Via. Insomma, altro che staff. Era un gruppo di gente con le palle.
Nelle stanze di Botteghe Oscure, io cercavo di replicare lo schema organizzativo di Blair (e quelli che avrei messo insieme, i famosi “Lothar”, non erano niente male, soprattutto se paragonati a certe squadre che abbiamo visto circolare successivamente in Italia). Per suggellare la fede blairiana, avevo nel mio ufficio un quadretto che riportava una frase del mio idolo: “C’è sempre il pericolo, quando sei un agente del cambiamento, che la gente pensi che tu sia un agente del tradimento”. Un concetto che, secondo me, si adattava perfettamente alla fase che stavamo vivendo nel PDS, dove qualunque tentativo di rinnovamento veniva visto con sospetto.
Accadde che – pochi mesi dopo la sua elezione – Tony Blair venne in Italia per incontrare il suo collega D’Alema al Bottegone. L’incontro – mi fu detto poi – andò molto bene, i due trovarono l’intesa su tante cose. Al punto che quel furbacchione del mio dante causa, accompagnando l’ospite all’uscita, lo fece entrare nel mio ufficio mostrandogli il quadro, per attestare il nostro solido blairismo, quantomeno quello dei suoi collaboratori. Blair, con aria divertita e sorniona, lesse il testo ed esclamò: “Ma io questa frase non l’ho mai detta!”. Poi mi salutò con una strizzatina d’occhio. E ora portami con te in Medio Oriente, Tony!
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Caro Claudio,
mentre tu veleggiavi nei mari della terza via, io ero Presidente dell’Enel. Ma a proposito di terza via, ti dovrai prima o poi esercitare seriamente a spiegare la metamorfosi di Massimo D’Alema. Il congresso di Roma del ‘98 passò alla storia per il suo scontro con Cofferati, allora segretario della CGIL. D’Alema osò mettere in discussione la rigidità del mercato del lavoro in Italia, e Cofferati eresse un muro invalicabile. È toccato a Renzi molti anni dopo dare seguito agli intenti dalemiani, trovando Massimo all’opposizione del job act che ha abbattuto il totem dell’articolo 18. E il D’Alema di oggi non assomiglia nemmeno lontanamente a quello che fu da Presidente del Consiglio, affascinato dalla terza via. Ma torniamo a noi.
Un giorno mi viene chiesto di incontrare Heidar Aliyev, allora Presidente della repubblica dell’Azerbaijan, paese ricco di petrolio e gas. Alloggiava a Roma all’Hotel Excelsior, dove mi recai. Aliyev era stato il segretario del Partito Comunista della Repubblica dell’Azerbaijan, e dopo la dissoluzione dell’Urss – e qualche inevitabile turbolenza – era riuscito a diventare il Presidente/padrone del suo Paese. Tanto padrone che dopo la sua morte gli è succeduto il figlio. In sostanza la famiglia governa ininterrottamente dal 199. In fondo nessun cambiamento c’è stato con il precedente regime comunista, se non la fine del legame con la Russia. Comunque, arrivo all’Excelsior dove vengo prima perquisito dalle numerose guardie del corpo del Presidente e poi introdotto nel suo appartamento. Al centro di una grande stanza il grand’uomo siede su una specie di trono, a sua volta collocato su una pedana rialzata. Io lo guardo da sotto in su e cominciamo a scambiarci una serie di informazioni. Finita la presentazione da parte mia, mi viene rivolta qualche domanda di approfondimento. Poi Aliyev mi chiede quale fosse la mia occupazione prima del mio incarico all’ENEL. “Sono stato deputato del PDS, il partito nato dallo scioglimento del PCI”.
A questo punto al mio interlocutore si illuminano gli occhi e mi chiede: “Ma per caso lei conosce il compagno Rubbi?” Ora, per chi non lo sapesse, Antonio Rubbi era incaricato presso la sezione esteri del PCI del rapporto con i partiti comunisti di oltre cortina. Parlava russo, aveva vissuto in Unione Sovietica dal 1958 al 1962. Veniva da una famiglia di braccianti dell’Emilia Romagna, era un figlio prediletto del Partito, ma era tutt’altro che chiuso, e dotato di un discreto senso dell’ironia, oltre che consapevole di tutti i limiti del comunismo dell’Est. Ma non divaghiamo. Rispondo a Aliyev che certo conoscevo Rubbi, eravamo appena stati insieme al congresso del Partito Radicale italiano, e che se voleva lo avrei messo in contatto con lui. A questo punto il grand’uomo si illumina, scende dalla pedana e mi abbraccia. E si prende il numero di Rubbi. Era diventato l’autocrate del suo Paese, altro che Potere al Popolo, ma certi legami, un passato pesante e importante, non venivano meno. Probabilmente con Rubbi avevano anche passato qualche notte insieme a bere vodka. Che probabilmente il nostro faceva finta di bere, consapevole che era impossibile reggere le quantità d’alcool che da quelle parti ingurgitavano.
La mia storia finisce qui, ma non quella dei rapporti fra l’Italia e l’Azerbaijan, e fra questo paese stato ricco di petrolio e gas, e l’ENEL. Ancora nel 2012 l’ENEL firmò un contratto per l’importazione di 1 miliardo di metri cubi di gas, che sarebbero arrivati in Italia grazie al metanodotto denominato TAP. Quello che si è fatto, nonostante le opposizioni di Emiliano e company, e che ci ha salvato almeno in parte dalla chiusura dei rubinetti dalla Russia, dopo l’inizio della guerra con l’Ucraina. Mentre i tedeschi negoziavano l’apertura di un nuovo metanodotto dalla Russia, che avrebbe aumentato la nostra dipendenza da quel Paese, noi italiani davamo il via libera all’unico metanodotto dell’Est che bypassava la Russia. Fu una cosa ben fatta.
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