E’ incredibile che si è tornati a parlare di guerra tra Stati e Popoli, e non solo economica (ad esempio con i dazi), e non solo in quei Paesi che mai hanno smesso (ad esempio in Medio Oriente).
Proprio l’Europa che è stata la madre delle più grandi Guerre Mondiali di tutti i tempi, dopo le recenti esitazioni degli Stati Uniti d’America, si accorge che è “nuda” e tenta il riarmo di ogni singolo Stato che la compone, la corsa agli arruolamenti, video sul primo soccorso in caso di attacco.
La guerra non fa più paura come nel ’45 quando i sopravvissuti, sfiniti mutilati e impoveriti, promisero che “mai più” sarebbe riaccaduto, siglando questa promessa, almeno in Italia, nella Carta Costituente “L’Italia ripudia la guerra” con il celeberrimo art 11.
Fra la maggioranza di voci oggi prive di ogni timore, risuonano invece dentro di me le parole opposte di Vincenzo e Aldo, nati nel 1912.
Erano due bei giovani, Vincenzo e Aldo, amici tra l’altro, l’uno più gracilino e l’altro più robusto ma entrambi uomini con occhi buoni e mani forti, uniti dalla passione per il calcio, la responsabilità di una famiglia con figli piccoli e l’arruolamento nel servizio navale della Guardia di Finanza.
Erano bambini durante la prima Guerra Mondiale e uomini di nemmeno trent’anni allo scoppio della Seconda. Erano nel fiore della loro giovinezza, bellezza, forza. Avevano ambizioni personali e desideri intorno a loro come qualunque giovane di oggi che ama e che sogna il suo futuro, le risate con gli amici, il privilegio di un buon lavoro che manteneva la famiglia.
Furono strappati da giornate ordinarie per andare in guerra lasciando quegli abiti stirati dalle loro mogli casalinghe per indossare divise spesse e maleodoranti, un elmetto pesante in testa, un baule al braccio e sul foglio di reclutamento l’indicazione “usare mezzi di fortuna”. Si imbarcarono sulle navi militari e furono fatti prigionieri per ben tre volte e per ben tre volte riuscirono furtivamente a scappare.
Conobbero la paura quotidiana di morire, l’odore della morte dei loro amici strappati anch’essi dalle loro vite, la fame di giorni senza un pasto o con qualche buccia cruda di patata rubata al mangime dei porci, l’umiliazione, la cattiveria umana che si scagliava contro loro: giovani sbattuti in trincea che prima si difendevano dagli uni (i tedeschi) e poi dagli altri (gli alleati).
Vivi per miracolo, per fortuna o per il caso di aver detto “no” quando i “si” subito dopo venivano fucilati, hanno camminato per migliaia di chilometri, anche scalzi, provando a nascondersi in qualche villaggio sperduto nel Montenegro, piangendo e supplicando la fine di quell’Inferno, incrociando solo altri occhi disperati e corpi di ragazzi che prima della Guerra dovevano essere belli e vigorosi mentre ora erano scheletrici e mutilati.
Quell’Inferno finì solo 6 anni dopo e fece più di 68 milioni di morti in tutto il Mondo.
Vincenzo e Aldo tornarono a piedi dalle loro famiglie, partendo dai campi di prigionia in Germania dove erano stati deportati puniti dai Tedeschi per il tradimento Italiano. Non oso immaginare in quali condizioni arrivarono, il pianto dell’abbraccio, l’unica flebile goccia di luce di essere almeno ancora vivi.
Come torna un giovane trentenne quando la guerra ti ha spezzato l’anima, il corpo e i sogni? Quando nessuna acqua laverà il dolore dei morsi della fame, nessun sorriso sarà mai più profondo e dove la vita sarà segnata da ricordi raccapriccianti?
Tante volte ho chiesto a Vincenzo e Aldo di raccontarmene.
Loro erano i miei nonni.
Ma non hanno mai voluto. Mai. Quello che so lo so per bocca dei miei genitori.
Loro dicevano che era troppo brutto quello che avevano visto e che io, allora bambina, dovevo rivolgermi gioiosa verso il mio futuro di pace e prosperità e lasciare che il buio della Guerra restasse alle mie spalle celato nei loro sguardi intristiti. Affinchè morisse definitivamente con loro.
© Riproduzione riservata
