Con “La trama fenicia”, Wes Anderson compie una rischiosa inversione a “U” rispetto ai suoi ultimi film. Ritorna al centro il tema della paternità (I Tenenbaum, Il treno per il Darjeeling) insieme con la domanda – inevitabile – sul senso dell’essere figli. Una svolta tanto brusca quanto necessaria, considerato che Anderson negli ultimi tempi aveva raggiunto snervanti picchi di formalismo e di autocompiacimento stilistico.
Non è un mistero che anche gli spettatori meno esigenti abbiano sospettato che dietro il fumo lilla e il découpage a cucù si celasse uno spaventoso vuoto d’idee. Eppure ci troviamo davanti al film più politico del regista texano. A metà tra Enrico VIII ed Elon Musk, Zsa-zsa Korda (Benicio del Toro) è un produttore di armi apolide che truffa soci e investitori (nababbi, principi e cardinali) per tenere in piedi il suo impero, minacciato da sabotatori e attentatori (poiché i suoi nemici hanno il vizio di nascondere una bomba sul suo aereo privato). Liesl (Mia Threapleton), unica femmina dei dieci eredi Korda, è destinata a ereditare la fortuna del padre benché sia suora. Mentre il magnate la trascinerà nei suoi affari, lei proverà a redimerlo e a mettere ordine nella contorta esistenza del padre.
I riferimenti al cinema del passato si sprecano (aldilà dell’ineluttabile Citizen Kane). Il rapporto letale tra Zsa-Zsa e suo fratello Nubar (Benedict Cumberbatch) sembra uscito fuori dagli incubi più neri dell’espressionismo tedesco più che dalla Bibbia. E nel paradiso à la Bergman dove campeggiano i fantasmi della famiglia di Korda come in un dipinto fiammingo, non c’è Dio – poiché lui non crede – ma il suo tribunale interiore.
Il senso della trama (“fenicia” perché incomprensibile) è un’onesta presa di coscienza della fine: la fine dell’impero di Korda, delle sue menzogne mortifere e dei suoi incubi ultramondani. Una partita a scacchi dall’epilogo certo.
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