Quando si parla di lobbying si pensa principalmente alle grandi aziende di beni e servizi e difficilmente ci si riferisce agli operatori culturali. È una falsa percezione, perché anche queste realtà sono attive nella rappresentanza dei propri interessi presso le istituzioni.
Va da sé che un esempio lampante arrivi dagli Stati Uniti, dove il lobbying, seppur di matrice diversa e in un contesto istituzionale anch’esso diverso dal quello europeo, ha una lunga e consolidata tradizione. L’università di Harvard nel 2020 ha speso 555 mila dollari in lobbying, superando le altre sette università appartenenti alla blasonata Ivy League, che comprende gli istituti di formazione più elitari del Paese. Quali sono i temi che hanno impegnato Harvard nella relazione con il Congresso e la Casa Bianca? Aspetti come gli aiuti economici per gli studenti, i finanziamenti per la ricerca, la pressione fiscale, le leggi sull’immigrazione e le regole relative alla pandemia. Le altre università della Ivy League non hanno speso molto meno. Solo qualche esempio: Yale si è attestata sui 530 mila dollari, la Cornell sui 520 mila e la Penn sui 430 mila (Harvard’s 2020 Lobbying Expenditures Top Ivy League, Focusing on Pandemic, Immigration Legislation, Jasper G. Goodman and Kelsey J. Griffin, Crimson Staff Writers, 23 febbraio 2021, thecrimson.com).
Per la rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet, abbiamo parlato di cultura e lobby, binomio che da noi è considerato esotico, con Sergio Scalpelli, presidente de Linkiesta ed ex responsabile dei rapporti istituzionali di Fastweb. Guarda l’intervista.
“Alla cultura servirebbe una fortissima, potente e strutturata attività di lobby ma dal mondo della cultura si fa fatica a costruire una coesione minima necessaria perché questa attività di lobby e protezione degli interessi del settore possa essere effettivamente efficace” ha dichiarato Scalpelli.
Malgrado l’apparente stranezza della coppia lobby-cultura, anche nel nostro Paese le grandi realtà del settore sono impegnate nel curare le relazioni con le istituzioni, insieme alle organizzazioni di natura sociale. In Italia fanno lobby i centri di ricerca, le associazioni e le Chiese. Però, come sottolinea Scalpelli, le piccole organizzazioni sono poco, pochissimo o per niente rappresentate. Come del resto anche in altri settori, manca la cultura del fare squadra per avere voce in capitolo nei confronti del decisore pubblico. Ma lo stesso problema riguarda le piccole imprese che rappresentano una fetta fondamentale dell’economia italiana. Se anche i “piccoli” facessero lobby, e se fossero perlomeno ascoltati, avremmo una regolamentazione più aderente ai problemi e alle necessità del Paese. Quindi, come ho detto più volte, il guaio dell’Italia non è l’eccessiva presenza di attività di lobbying, ma esattamente il suo contrario.
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