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Psicologia sociale del Natale: quando non è vero che siamo tutti più buoni

Giornalista freelance
Psicologia sociale del Natale: quando non è vero che siamo tutti più buoni

Sul The Atlantic esiste una rubrica molto istruttiva dal titolo “Dear Therapist”: ogni ultimo lunedì del mese, un lettore indirizza “problemi, piccoli o grandi” a Lori Gottlieb, giornalista della storica rivista culturale Usa. Una postilla – in calce a ogni scambio epistolare – precisa che le risposte non sono da intendersi in alcun modo sostitutive di un parere di tipo medico professionale.

La lettera di dicembre è scritta da una giovane donna separata, il cui titolo è un lapidario “Questo Natale non voglio vedere mia madre”.

La donna ammette di avere da sempre un problema che le provoca molti patemi: fa fatica a stabilire un confine nel rapporto con la madre, soprattutto nel periodo delle feste natalizie. E scrive:
“Mia madre ha una personalità tossica, mi fa sentire in colpa ogni volta che provo a dirle, durante il Natale, che ho problemi nell’andare a trovarla: l’anno scorso la sua reazione è stata così pesante da stare fisicamente male, con emicrania, crisi di ansia, difficoltà a parlare. Alla fine ho dovuto cedere perché in preda ai sensi di colpa”.

La frenesia natalizia, l’obbligo “sociale” di affabilità, l’acquisto forzato di regali, l’adesione non spontanea alle riunioni di famiglia, insomma, il dover corrispondere alle aspettative degli altri sono tutti condizionamenti spesso percepiti come forme di limitazione della propria libertà a cui è istintivo cercare, in maniera più o meno consapevole, di reagire e opporre resistenza.
Nel 1966 per definire questo fenomeno, lo psicologo Jack Brehm formulò la teoria della “reattanza”, prendendo in prestito il termine dal lessico ingegneristico dei circuiti elettrici: la reattanza psicologica si verifica proprio quando, sottoposti a una forte pressione per accettare un certo punto di vista o un atteggiamento, si genera una resistenza che porta a reagire nella direzione opposta, rafforzando il punto di vista o l’atteggiamento contrari. Fondamentalmente, è una strategia di controforza per mantenere o riconquistare la propria libertà.

Per esempio, anche se può sembrare paradossale, dal punto di vista della psicologia sociale, chi riceve un dono non sempre è contento di riceverlo, perché il dono può creare dipendenza psicologica, soprattutto quando le norme sociali impongono di dover ricambiare: in tempi e modi che non si è del tutto liberi di scegliere.
Viene in soccorso Lori Gottlieb del The Atlantic che alla donna frustrata per quella che definisce una madre oppressiva, offre una chiave di lettura interessante e, forse, utile a chiunque viva con malessere il tempo delle convenzioni natalizie: “Molte persone”, scrive Gottlieb, “hanno difficoltà a esprimere liberamente i propri desideri ai familiari: questo è particolarmente vero durante le festività, che portano con sé aspettative accresciute e stratificate su vecchi schemi e ferite”.

Lo sforzo, dunque, da centellinare durante tutto l’anno per raccogliere i frutti durante le feste, ad alto tasso emotivo, è provare a rinunciare alle convinzioni sedimentate in tanti anni di vita famigliare comune: perché “etichettare gli altri e le loro reazioni implica che ogni compassione per loro diminuisca”. Ciò non significa, conclude “The Therapist” che “i sentimenti di tua madre debbano prevalere sui tuoi. Significa solo che migliorerai nell’esprimere i tuoi desideri quando potrai fare spazio a entrambi”.

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