PQM
Custodia cautelare rima con punizione anticipata: storie di ex detenuti
Il termine malagiustizia è spesso evocato per denunciare casi eclatanti di condanne ingiuste. Tuttavia, parlando di questo argomento in carcere, è emersa una questione importante che merita riflessione. Molti detenuti hanno avuto esperienze personali di questo tipo di malagiustizia: sono stati raggiunti da provvedimenti di custodia cautelare mentre si trovavano già in carcere e, al termine del procedimento penale, sono stati prosciolti. Durante una discussione nella redazione di Ristretti Orizzonti, mi sono tornate in mente alcune scene vissute ormai trent’anni fa, quando ero detenuto in attesa di giudizio. Ogni mattina, all’arrivo dell’ufficiale giudiziario, nel reparto detentivo calava un silenzio gelido: si attendeva di scoprire chi sarebbe stato chiamato. Poi, quando le persone convocate tornavano con il foglio in mano, bastava osservare la loro espressione per capire se si trattava di una convocazione per una camera di consiglio o di un mandato di cattura.
La prassi della custodia cautelare
Oltre alla mia esperienza personale, le testimonianze dei detenuti e numerosi studi, soprattutto Oltreoceano, evidenziano il ricorso eccessivo alla custodia cautelare nei confronti di persone pregiudicate, marginalizzate o razzializzate, spesso senza adeguata documentazione del reale coinvolgimento. Questa prassi trasforma la custodia cautelare in un meccanismo di punizione anticipata, che colpisce in maniera sproporzionata individui già etichettati come “colpevoli”. I detenuti percepiscono che gli inquirenti cercano di attribuire loro episodi irrisolti, sperando di trovare conferme solo in fase dibattimentale. Così, diverse persone si sono viste notificare procedimenti per furti o rapine che non avevano mai commesso, e hanno dovuto lottare per dimostrare la propria innocenza. L’uso del termine “lottare” per descrivere il processo non è casuale. Andare a processo mentre si è già detenuti complica seriamente la difesa: occorre pagare nuovamente l’avvocato e affrontare la perdita di credibilità, con la presunzione di innocenza che risulta già compromessa di fronte alla Corte.
Il risarcimento
Spesso, anche il primo processo risente di questa dinamica: la presunzione d’innocenza viene erosa dai successivi mandati di cattura, percepiti come indizi di colpevolezza. E quando arrivano le assoluzioni, i detenuti devono ancora “combattere” per ottenere qualche forma di risarcimento per l’ingiustizia subita durante la custodia cautelare. La legge prevede, infatti, che il giudice della riparazione accerti se l’incolpato abbia causato o concorso a causare la detenzione con dolo o colpa grave. Dalle testimonianze emerge che, nella maggior parte dei casi, ogni forma di riparazione viene negata.
Sbagliare è umano e chiunque può essere coinvolto erroneamente in un procedimento penale. Tuttavia, quando la custodia cautelare colpisce individui appartenenti a categorie socialmente stigmatizzate (stranieri, persone con precedenti penali o tossicodipendenti) lo status sociale diventa determinante nel definire l’interpretazione istituzionale della giustizia e dell’errore giudiziario. La malagiustizia è riconosciuta come tale soltanto quando la vittima appartiene a un gruppo considerato rispettabile e degno di fiducia sociale; in questi casi, anche i media amplificano il caso, denunciando la “rovina di una vita innocente”. Quando le vittime sono già stigmatizzate, invece, l’assoluzione non viene letta come un “disastro” della giustizia, ma come un esito fisiologico, una distorsione accettabile. Le conseguenze, però, restano devastanti per chiunque: vite compromesse, relazioni familiari distrutte, progetti di futuro annientati. La differenza è che, per i cosiddetti “per bene”, la società riconosce la tragedia, mentre per gli altri il danno rimane invisibile. Si può dire che non solo il diritto (e quindi la giustizia) ma anche la malagiustizia non è un concetto neutro: essa è socialmente costruita, selettiva e contribuisce a produrre nuove disuguaglianze.
Un pregiudicato non è mai al sicuro
Nel 2007 vengo accusato di una rapina a Ravenna, a piede libero. Niente custodia cautelare nonostante il derubato mi avesse riconosciuto nelle foto segnaletiche come l’autore materiale della rapina, ma il riconoscimento era avvenuto dopo sei mesi dalla denuncia, perché prima la vittima aveva dichiarato che il rapinatore armato di pistola e casco integrale non lo aveva mai visto in faccia. Mi fissano il processo dove l’avvocato, per difendermi, faceva avanti e indietro Napoli-Ravenna. Dalle indagini non c’era niente che mi collegasse alla rapina e a quel territorio, l’unica prova era il riconoscimento in questura, ma già smentito. Al processo vengo assolto ma ne esco deluso e sfiduciato. E mi è rimasto anche un forte danno economico per dimostrare la mia innocenza in una “folle indagine” dove si mandava a processo una persona praticamente solo perché pregiudicata. Penso che questa vicenda si è conclusa con due vittime: l’accusato e il derubato. Io sono stato assolto, ma credo che non avrei proprio dovuto arrivare al processo e mi è rimasta la delusione, la paura di non essere mai al sicuro e l’idea che tante indagini non garantiscono in nessun modo gli indagati. Ma c’è una seconda vittima, il derubato, che dopo aver subìto una violenta rapina è stato indotto ad accusare sulla base di foto una persona che non ha mai visto. Quindi mi vengono seri dubbi su come sono condotte alcune indagini e cado in un autentico sconforto al pensare che un pregiudicato non è mai al sicuro.
Salvatore
Quando la “rete della giustizia” pesca a strascico
Gennaio 2001, ho appena diciott’anni, ecco che arriva un blitz direttamente da Torino, un’operazione importante, eclatante: dalla Puglia ci portano tutti al nord, carcere Le Vallette. In Puglia quando buttano la “rete della giustizia” spesso tirano su a strascico tutto quello che capita; io ci finisco dentro con un’accusa di 416 bis, estorsione e traffico internazionale di stupefacenti. Motivo? Avevo una relazione con la figlia di una delle persone arrestate. La vita si interrompe di colpo, vengo sbalzato a più di 1.000 chilometri da casa, prima carcerazione, a dir poco traumatica. I primi giorni passano in un’attesa snervante non so neppure di cosa, tutto è avvolto nell’ansia di non capire cosa mi sta succedendo. Un anno trascorre così. Poi per un vizio di forma a uno a uno veniamo scarcerati, si torna a casa in un misto di incredulità, rabbia e felicità.
Settembre 2025: ad oggi nessun processo è stato istruito su quell’indagine, per quel blitz così “maestoso” e importante. Seppur legittima, la custodia cautelare mi interroga sull’ingiustizia che spesso avvolge questo strumento e il suo utilizzo, perché dopo 24 anni nulla è successo da quell’arresto, che mi ha relegato in una nuova dimensione rispetto alla mia vita di allora, bollandomi come un criminale. Non nascondo che quell’esperienza mi ha segnato nel profondo e forse il mio futuro sarebbe stato diverso se non avessi dovuto subire da innocente quel trattamento traumatico e mortificante che ha aperto la strada a scelte sbagliate che sto ancora pagando.
Francesco
Rabbia e odio nei confronti di quelli che mi tenevano rinchiuso con accuse ingiuste
Diceva Filippo Turati in un discorso alla Camera nel 1904: “Noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Ecco, vorrei portare il lettore “per mano” attraverso il racconto di chi, come me, la scuola del crimine l’ha fatta ed è riuscito a laurearsi con il massimo dei voti: l’ergastolo.
Ebbene, “la scuola del crimine” io la conobbi appena diciannovenne, nel 2008. Venni tratto in arresto per un mandato di cattura con accusa di porto d’armi abusivo. Mi portarono in un carcere sovraffollato, in pessime condizioni igienico-sanitarie, parcheggiato in attesa dell’ignoto. Sapevo sin da ragazzo che prima o poi sarei dovuto passare per la galera, me lo aveva anticipato mio padre quando avevo appena 13 anni e mi trovò in possesso di una pistola: “La strada che stai scegliendo ti porterà in carcere a vita o morto ammazzato!”. Aveva ragione, ma non riesco oggi a valutare quale delle due opzioni fosse la migliore. Dopo circa dieci giorni mi trasferirono nella mia terra, in Calabria, a Palmi, per affrontare le accuse e il processo. Se molte carceri italiane vengono definite “scuole del crimine”, Palmi è l’università, o perlomeno lo era. Le giornate noi detenuti le passavamo tra il cortile e la cella a discutere di processi, condanne, sentenze, ma quello che più di tutto ci accomunava era la voglia di emergere in un mondo che ai nostri occhi sembrava affascinante: il mondo del crimine, che illudendoci ci prometteva soldi facili, bella vita e potere.
Venni scarcerato dopo pochi mesi; l’esperienza detentiva non mi aiutò a redimermi, anzi, fu come se quella breve detenzione mi avesse conferito una medaglia da esibire sul petto per fare vedere ai più giovani che il carcere non mi aveva piegato, bensì mi aveva reso più forte. Gli “affari” andavano bene, fino a quando non si presentò alla mia porta la polizia. Le accuse andavano dall’associazione mafiosa al traffico di droga. Venni portato in carcere in isolamento, dove rimasi per circa dieci giorni prima di essere trasferito in Calabria, dove mi aspettava una nuova esperienza: il reparto di Alta Sicurezza del carcere di Cosenza. Io in quel periodo iniziai a covare una sorta di rabbia e odio nei confronti di tutti quelli che mi stavano tenendo rinchiuso con accuse ingiuste, poiché i reati che mi venivano contestati sapevo di non averli commessi, e l’unica volta che venni convocato da un’educatrice, alla sua domanda riferita al mio coinvolgimento in quei fatti risposi con fermezza: “Io sono innocente.” Da quel momento non venni più chiamato da nessuno perché ritenuto omertoso e quindi mafioso.
Le giornate passavano in quella monotonia snervante in cui il pensiero che si affacciava con maggior insistenza alla mia mente era quello della vendetta, della rivalsa per quello che ingiustamente stavo subendo. Ci volle più di un anno per chiarire la mia posizione processuale, ma venni scagionato da tutte le accuse e assolto con formula piena e subito dopo scarcerato. L’esperienza dei reparti differenziati mi insegnò a non mostrare mai le emozioni e mi fece maturare sentimenti di odio e di rabbia. E non a caso, appena uscito dal carcere, il giorno dopo indossai il passamontagna e cominciai a fare quello che sapevo fare, ma con molta più determinazione e violenza nei confronti di tutto e di tutti. Ero diventato una bomba a orologeria e la mia rabbia esplose, trovando conforto nell’azione criminale, nell’adrenalina del rischio e della rivalsa, prendendo con la forza tutto quello che desideravo, senza considerare niente e nessuno. Io ero stato ritenuto colpevole “a prescindere”, ed allora tutti coloro che permettono alla giustizia di operare in questo modo, facendolo anche nel nome del popolo italiano, sono tutti colpevoli, pensavo. In poco meno di un mese mi macchiai di crimini orribili, tra cui una rapina finita nel sangue. Da quel momento in poi il mio percorso autodistruttivo ebbe i giorni contati: ben presto infatti venni arrestato. Era la fine di tutto.
Giuliano N., condannato giovanissimo all’ergastolo
© Riproduzione riservata






