L'opinione
Il Pci non restò fermo ad aspettare la sua caduta, ma si divise sulle idee
È puntuale la ricostruzione degli eventi degli ultimi mesi prima della Bolognina, fatta da Piero Fassino il 18 settembre scorso sulle colonne del Riformista. Semmai sorge un interrogativo sull’incontro (che ignoravo) tra lui, Occhetto e Shevardnadze del febbraio del 1989 a Roma.
Perché avvenne, visto che solo qualche settimana prima una delegazione del Pci guidata da Occhetto ne aveva incontrata una guidata da Gorbaciov a Mosca? Forse Shevardnadze era portatore di una linea diversa da quella rappresentata da Gorbaciov a Occhetto?
Al di là di ciò, confesso che non mi convince la valutazione che appare sottostante al racconto di Fassino dei mesi della svolta: quasi si trattasse di una corsa contro il tempo. Per ripudiare in fretta la propria storia e non rimanere sotto le macerie. Intendiamoci. Sono arciconvinto che negli anni Ottanta l’elaborazione politica del Pci avesse ristagnato. Ed è anche fuor di dubbio che il sistema del socialismo reale fosse evidentemente e da tempo agonizzante. Del resto, già nell’81, Enrico Berlinguer aveva dichiarato esaurita la fase storica aperta dalla rivoluzione d’ottobre aprendo la via a qualcosa di nuovo. Dopodiché effettivamente era seguito poco. Ma dall’87, viceversa, ci si mosse tempestivamente. Parlare di ritardi per allora mi sembra fuor di luogo.
E però rivela e fa riemergere una frizione decisiva tra due modi di concepire la svolta. Berlinguer con la dichiarazione dell’81 sull’esaurimento di una fase storica aveva spostato dal passato al futuro il punto di riferimento della ragion d’essere e della stessa identità del partito nuovo. E invece le componenti riformiste del partito, innanzitutto Napolitano e Macaluso, ma anche alcuni del gruppo dirigente giovane, avevano in mente il passato e o l’immediato presente: la dichiarazione del proprio fallimento, il cambio di nome, la riunificazione socialista in vista di un rapido approdo al governo. Annoto in proposito anche un lapsus nella lettera di Piero Borghini, comparsa sempre sul Riformista, a commento dell’articolo di Fassino. Curiosamente egli ricorda che al famoso incontro tra Kinnock e Occhetto a Bruxelles, a caduta del muro in corso, parteciparono lui e Pasquale Cascella (entrambi di ispirazione riformista) mentre nella realtà vi partecipai sicuramente (e forse solamente) io che riformista non ero. È un dettaglio rivelativo del desiderio di rappresentare il senso della svolta come ritorno nella tradizione socialista. Il tema dei tempi e della fretta allora era cavallo di battaglia di chi si batteva per questa lectio simplicior della svolta.
Perciò resto colpito da quanto scrive Fassino. Rivelativa è in proposito la vexata quaestio se fare uno o due congressi. Il primo per decidere se costruire un nuovo partito e il secondo dedicato al come. Una inutile perdita di tempo per chi pensava all’approdo socialdemocratico. In tal caso, infatti, bastava cambiare il nome e a questo, non alla creazione di una formazione politica nuova, si riduceva la svolta. Infine, come si sa, i fautori del ritorno al 1920 e i conservatori del 1921 strinsero una tenaglia che portò alla decapitazione di Occhetto a Rimini e, a mio avviso, al naufragio della svolta stessa. Porre l’identità al futuro o invece al passato-presente era fondamentale. E allora certo Occhetto era “nuovista”. Al futuro voleva esser la ricerca anche di esponenti come Reichlin, Trentin e, nel suo piccolo, del sottoscritto berlinguerian-rodaniano. Non è certo un caso che alcuni intellettuali di ispirazione riformista abbiano successivamente, in numerosi scritti, voluto sistematicamente demolire la figura di Berlinguer. Difficile ricostruire la discussione di allora sui contenuti.
Il cleavage vero e proprio era, a mio avviso, tra chi pensava che il Pci si sarebbe dovuto dissolvere in un partito della modernizzazione e di governo, e chi voleva tenere aperto lo sguardo a questioni che oggi appaiono più che mai cruciali: il ruolo della politica rispetto alla concentrazione economica; come finalizzare al bene comune lo sviluppo tecnologico-industriale e quindi quantità e qualità dello sviluppo, e soprattutto, dopo la rinuncia inevitabile all’idea di superamento del capitalismo, come affrontare il grande tema dell’alienazione dell’uomo: tema non solo marxista ma proprio di tutta la filosofia fondamentale contemporanea da Heidegger a Severino! Infine, sul piano internazionale, il dilemma tra l’esser protagonisti della costruzione di una grande casa comune europea, secondo l’idea che era anche di Gorbaciov o allinearsi a una socialdemocrazia alleata dei liberali nel chiuso di un Europa occidentale sia pure in “espansione” verso est. Anche questi, come si intende subito, temi oggi ancora quanto mai cruciali.
Ma, si potrà obiettare, in fondo non avevano ragione i riformisti di Napolitano che non a caso giunse persino al Quirinale? Risponderei che quella che sembrava a molti la via maestra da perseguire il più presto possibile, si è rivelata essere un sentiero interrotto. Dopo i fuochi fatui del liberalsocialismo di Blair e Schroeder e dell’unipolarismo clintoniano, che cosa è avvenuto se non la desertificazione dell’impianto socialdemocratico e del keynesismo politico assai più di quello teorico? E del resto era inevitabile perché anche il filone socialdemocratico, come dicevamo, si era esaurito. E davvero occorreva una via nuova. Siamo all’oggi. Al confronto triste tra riformisti e radical-wokisti in Italia e in Occidente (replica dell’eterno scontro tra massimalisti e riformisti) e alla perdita di contatto con i dilemmi e le ansie reali delle masse popolari dileggiate come “populismo”.
Popolo, intanto, che in fette sempre più consistenti “cambia di spalle al fucile” per dirla come un tempo. E che segue altri che danno a loro modo risposte più incisive e concrete ai limiti del globalismo e ai suoi effetti sradicanti. Infine allo sguardo all’uomo e ai suoi diritti e non solo a quelli dell’individuo. Non abbandonando l’idea di un nuovo umanesimo in nome di uno spettrale progressismo individualistico-tecnologico. Finisco ancora su Bruxelles. Di ritorno in aereo, Achille Occhetto mi propose di parlare apertamente del nuovo nome. E disse: sarebbe bello Comunione e liberazione, peccato che altri ci abbiano pensato prima. In effetti comunità e libertà erano i due termini che dovevano restare uniti e che la sinistra “progressista” ha da allora totalmente smarrito.
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