Non è la prima volta che Maurizio Landini viene colto dal malore delle parole dal sen fuggite. Negli ultimi tempi, la sua oratoria ha assunto toni sempre più acuti e sgraziati: dall’incitamento alla rivolta sociale, all’accusa al presidente del Consiglio di complicità in un genocidio, fino all’ultima uscita — la definizione di “cortigiana di Trump” — che ha superato ogni soglia di misura e decoro. Espressioni tanto scomposte da commentarsi da sole, per la gravità con cui travalicano le regole minime della civiltà del confronto, e ancor più se rivolte al capo del governo. Quando poi a pronunciarle è il segretario generale di un sindacato che rappresenta milioni di lavoratori, la questione assume una dimensione di inquietante anomalia.

Un sindacato esiste per rappresentare interessi concreti: quelli di chi lavora. Dal suo equilibrio dipende il dialogo con il governo e con le imprese su temi cruciali — andamento dell’economia, politiche fiscali e contributive, relazioni industriali, contratti collettivi. È questa la sua missione: favorire il dialogo tra lavoratori di ogni orientamento, conciliare interessi contrapposti, rendere possibili mediazioni che rafforzino la coesione sociale. Ma Landini sembra aver smarrito questa bussola. Prescinde dal suo ruolo, si colloca fuori dal perimetro della rappresentanza sociale e indebolisce la funzione stessa del sindacato, che dovrebbe essere strumento di equilibrio, non detonatore di scontro.

Negli ultimi anni ha inflazionato lo sciopero generale solitario, con finalità politiche estranee al lavoro. Le piazze si sono così popolate non più di tanto di operai e impiegati, quanto dell’antagonismo permanente, con gli inevitabili strascichi di tensione e violenza. La CGIL di Landini appare ormai lontanissima da quella che ha accompagnato la crescita democratica della Repubblica. Era un sindacato legato alla sinistra, certo, ma capace di alimentare la spinta riformista, di mediare nei momenti drammatici, di contribuire al progresso economico e civile del Paese. Oggi, invece, il baricentro è saltato. Landini ha rotto il legame con gli interlocutori sociali e persino con la cultura riformista da cui proveniva.

Negli ultimi anni è sembrato manifestarsi sempre più frequentemente un gioco di tandem con forze marcatamente populiste, ostili al ruolo del sindacato e tuttavia trascinandolo nelle paludi dell’assistenzialismo del reddito di cittadinanza e nell’autolesionismo contrattuale del salario minimo, nel rifiuto della cultura partecipativa. Così facendo, trascina il sindacato verso una deriva di sterile protesta, isolandolo dal resto del mondo del lavoro e minandone la credibilità. È una perdita grave, non solo per la CGIL, ma per l’intero sistema democratico italiano, che ha bisogno di un sindacato forte, rappresentativo, responsabile. Tocca ora a tutto il movimento sindacale — ed a chi crede nel riformismo e nella coesione sociale— interrogarsi sul da farsi, prima che la voce di chi dovrebbe unire diventi soltanto un urlo che divide.

Raffaele Bonanni

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