La realtà non resta ad aspettare
Quando il Pci rinviò l’inevitabile caduta di un sistema già finito
Nella puntata del 30 agosto del simpatico e arguto amarcord epistolare intrattenuto sul Riformista da Claudio Velardi e Chicco Testa, si sono ripercorsi i mesi convulsi che precedettero la “svolta” con cui Occhetto propose di considerare esaurita la storia del PCI e di dare vita a una nuova formazione politica, in quelle prime settimane, denominata in modo approssimativo “la cosa”.
Claudio e Chicco si sono chiesti perché la presa d’atto della fine del comunismo abbia richiesto al PCI un tempo così lungo da essere formalizzata solo dopo la caduta del muro di Berlino, quando tutto avrebbe dovuto condurre a farlo prima della precipitazione degli eventi. È un quesito ricorrente a cui vale la pena di dare una risposta ripercorrendo passaggi salienti di quei mesi travagliati. Nei primi mesi dell’89 il tentativo generoso di Mikail Gorbaciov di riformare il sistema sovietico mostrava già grandi difficoltà. Nel mese di febbraio, con mia sorpresa, ricevetti una telefonata da Mosca con la quale Eduard Shevardnadze in persona – ministro degli Esteri e uno dei più stretti collaboratori di Gorbaciov – in perfetto francese mi comunicò l’urgenza di un incontro con Occhetto. Un incontro, mi chiese Shevardnadze, del tutto riservato, da svolgersi a Roma in un luogo al riparo da occhi e orecchie indiscrete.
Informai Occhetto e fissammo l’incontro in una saletta riservata al primo piano della Casina Valadier. Con Occhetto ci recammo all’appuntamento chiedendoci quali ragioni muovevano tanta urgenza. La risposta ce la diede Shevardnadze in una lunga e sofferta descrizione, con cruda sincerità, dei molti e crescenti ostacoli che stavano rendendo sempre più impervio il cammino della perestrojka gorbacioviana. E concluse: “siate pronti al nostro fallimento”. Ricordo che, terminato l’incontro, protrattosi per oltre due ore, e preso commiato da Shevardnadze, raggiungemmo la nostra auto in silenzio profondamente turbati da ciò che avevamo appena ascoltato.
Quell’episodio convinse Occhetto che non ci si poteva attardare, accelerando l’assunzione di scelte che prendessero atto che una storia volgeva al termine. Con Achille e Napolitano si decise che io mi recassi a Budapest, dai comunisti ungheresi del POSU che, liberatisi di János Kádár, insediato dai sovietici nel’56 e al potere da oltre trent’anni, avevano imboccato con determinazione una strada riformista: multipartitismo, elezioni libere, abolizione della censura, trasformazione del partito con ispirazione socialdemocratica, nuovo nome e rosa come simbolo, privatizzazioni e apertura al mercato. E Poszgaj – il leader che più incarnava la svolta – fu molto netto: “guardiamo con simpatia a Gorbaciov, ma non aspetteremo di vedere quel che accade a Mosca; la nostra strada l’abbiamo imboccata e non torneremo indietro”. Tornai e riferii a Occhetto e alla segreteria, sottolineando la necessità anche per noi di stringere i tempi.
In maggio il PCI venne invitato a Stoccolma al Consiglio generale della Internazionale Socialista – con i cui partiti da alcuni anni Giorgio Napolitano aveva intessuto una intensa interlocuzione – e Antonio Bassolino, inviato a rappresentare il partito, dichiarò che era tempo che il PCI assumesse un nuovo simbolo. In giugno esplose a Pechino Piazza Tien An Men e Occhetto dichiarò: “Il PCI sta dalla parte degli studenti”. Poche settimane dopo, insieme ad Occhetto, ci recammo a Budapest per la solenne riabilitazione dei martiri ungheresi del ‘56. Ricordo questi passaggi perché indicano che in realtà Occhetto e il gruppo dirigente giovane intorno a lui erano pienamente consapevoli della necessità di mettere in campo una svolta. Tant’è che a metà luglio Occhetto convocò una riunione della segreteria e dei dirigenti storici a cui sottopose la necessità di atti politici coerenti con una traiettoria del PCI che, fin da Berlinguer, aveva via via allontanato i comunisti italiani dall’orbita sovietica per muovere nella direzione della sinistra europea.
La discussione fu intensa, ma travagliata. Natta e altri dirigenti guardavano con diffidenza ai mutamenti che investivano i Paesi socialisti e soprattutto diffidavano da passi che allontanassero il PCI dalla sua storia. Occhetto concluse la riunione proponendo una pausa di riflessione e, tenendo conto dell’imminente pausa feriale, diede appuntamento a un nuovo incontro all’inizio di settembre. Nel frattempo gli avvenimenti macinavano cambiamenti impetuosi, con l’emergere nei Paesi comunisti di movimenti civici e politici che rivendicavano radicali riforme: in Polonia Solidarność aprì un negoziato con il governo per la convocazione di elezioni libere; in Germania est un’ampia mobilitazione delle chiese protestanti e cattoliche investì le principali città tedesche provocando le dimissioni del leader della RDT Honecker; in Cecoslovacchia una dissidenza guidata da Vaclav Havel diede voce a una società impaziente di liberarsi di un regime ossificato dal 1968; in Ungheria in pochi mesi si arrivò alla nascita della Repubblica Ungherese, ponendo fine a quarant’anni di regime comunista. E analoghe dinamiche investirono le leadership di Ceaușescu in Romania e di Živkov in Bulgaria.
Un punto di svolta decisivo fu nell’agosto la decisione del ministro degli Esteri ungherese Gyula Horn – col silente assenso di Gorbaciov – di aprire la frontiera con l’Austria, consentendo ai tanti tedeschi dell’est in vacanza in Ungheria di transitare verso la Germania ovest. Ricordiamo ancora adesso le lunghissime file di Trabant – la vetturetta del popolo “orgoglio” della Germania est – che, cariche di persone, valigie e suppellettili imboccavano la strada della libertà. A metà settembre Occhetto riconvocò la riunione sospesa a luglio e sostenne con vigore che non potevamo semplicemente attendere gli eventi. Stava crollando un sistema di cui il PCI da anni denunciava le crepe e non si poteva certo attendere ancora. E dunque propose che si convocasse il Comitato Centrale del Partito per sottoporre la proposta di una svolta, con cambiamento di nome e di simbolo.
Ma qui emerse un problema imprevisto. Alla fine di ottobre si sarebbero svolte le elezioni comunali a Roma e apparve irrealistico e rischioso chiedere il voto per un simbolo nuovo, fino a quel momento sconosciuto, a un elettorato abituato da decenni a vergare la croce su falce e martello. Di qui la decisione di posporre a dopo il voto romano la convocazione del Comitato Centrale che – vigendo ancora in quegli anni il ponte festivo di inizio novembre – venne ipotizzata per metà novembre, anche per tener conto di un viaggio di Occhetto a Londra per incontrare il leader laburista Neil Kinnock. Va anche detto che, nonostante il terremoto che investiva i regimi comunisti dell’est, nessuno in quel momento prevedeva che di lì a pochi giorni sarebbe addirittura caduto il muro di Berlino. E non soltanto per una incapacità di previsione, ma per la renitenza di molti dirigenti e militanti ad accettare la fine di un mondo di cui, pure con molti distinguo, si sentivano parte. E peraltro in molti sussisteva ancora la speranza – che si rivelò un’illusione – che Gorbaciov fosse in grado di realizzare le riforme su cui aveva scommesso, spingendo gli altri Paesi comunisti a fare altrettanto.
Ma gli eventi conoscono spesso un’accelerazione assai più rapida delle previsioni. E il 9 novembre, improvvisamente, il ministro della propaganda della RDT Schabowski annunciò l’apertura dei varchi di confine che, lungo il muro, avevano separato per ventotto anni Berlino est da Berlino ovest. Quattro giorni dopo, il 12 novembre, Occhetto alla sezione Bolognina del PCI nel capoluogo emiliano annunciò’ la “svolta”. E così avvenne che il PCI, che aveva tutte le ragioni per fuoriuscire dal mondo comunista prima del suo crollo, arrivò a dichiararlo a fatti avvenuti. Una vicenda da cui trassi una lezione a cui ho poi sempre cercato di essere fedele: mai subordinare i tempi della realtà ai tempi autoreferenziali di un’organizzazione. Le scelte, anche quando difficili e dolorose, vanno fatte al tempo giusto.
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