L'intervista
35 ex diplomatici chiedono di riconoscere la Palestina, Mattiolo: “Due ragioni per non farlo. Albanese? È stata di una parzialità inaccettabile”
Luigi Mattiolo è un diplomatico italiano di lungo corso, già ambasciatore d’Italia in Germania, Israele e Turchia. Ha ricoperto anche il ruolo di consigliere diplomatico della Presidenza del Consiglio dei Ministri con Mario Draghi.
Cosa pensa dell’appello dei 35 ex diplomatici che chiedono il riconoscimento della Palestina?
«Mi ha colpito, anche perché analoghi appelli si sono registrati in altri Paesi europei, come la Germania. Conosco molti dei firmatari, sono stati per anni i vertici della nostra diplomazia, ma non ho ritenuto opportuno sottoscrivere quel testo. Per due ragioni».
Quali?
«La prima è di principio: il riconoscimento di uno Stato presuppone condizioni minime. Nel caso palestinese, oggi queste non esistono. Non sappiamo neppure quali sarebbero i confini di questo Stato, né chi lo governerebbe, soprattutto a Gaza dove dal 2007 domina Hamas, considerata da Europa e Stati Uniti un’organizzazione terroristica. La seconda ragione è legata al tono del documento, che appare più punitivo nei confronti di Israele che realmente costruttivo. Parla di «esecrabili attacchi di Hamas del 7 ottobre», ma aggiunge che non hanno più relazione con l’«orrore perpetrato» da Israele nella Striscia. È un’affermazione che di fatto nega a Israele il diritto di difendersi».
Anche le critiche alla «risposta eccessiva» di Israele sembrano spesso cariche di pregiudizio. Esiste un antisemitismo diffuso nelle opinioni pubbliche europee?
«Sì, esiste da tempo. E in questa fase si è saldato con una mobilitazione ideologica che mette insieme antiamericanismo, movimenti anarchici, ostilità verso l’Occidente. Israele è percepito come un avamposto dell’Occidente nella regione, quindi diventa bersaglio di una manovra concentricamente politica, ideologica e militare. Dopo il 7 ottobre, è stata attaccata da nord (Libano), da est (Siria), da sud-est (Yemen) e da Gaza. Ma questi attacchi vengono spesso ignorati dai media europei».
Cosa pensa della retorica antisionista, oggi sempre più sbandierata con orgoglio?
«È un terremoto culturale. C’è chi rivendica con orgoglio di essere antisionista, come se fosse un’etichetta di valore, quasi come l’antifascismo. Ma se esiste un movimento nazionale legittimo nato con il consenso dell’ONU e con una progettualità identitaria di Stato, è proprio il sionismo. È come se si fosse rovesciata la logica dei concetti: il sionismo nasce anche da radici marxiste, con Herzl. Negarlo oggi significa negare la legittimità dello Stato di Israele».
La preoccupa l’eventualità che Londra e Parigi possano riconoscere uno Stato palestinese?
«Siamo ancora lontani da uno scenario simile. Se l’intento è quello di fermare le ostilità, il primo passo dovrebbe essere il rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi israeliani, un cessate il fuoco e il disarmo di Hamas. Solo dopo si potrà discutere di ricostruzione, e quindi forse anche di riconoscimenti politici. Ma farlo ora significa dare ragione alla strategia di Hamas: «più peggiora la situazione, meglio è per noi».
Che giudizio dà di Francesca Albanese, la relatrice speciale dell’ONU?
«Ha spesso mostrato una parzialità inaccettabile, anche per gli standard delle stesse Nazioni Unite. Dopo il 7 ottobre, ha tentato di giustificare i crimini di Hamas con la teoria dell’«occupazione». La sua voce è la più eclatante, ma purtroppo non è isolata. L’ONU ha prodotto un numero spropositato di risoluzioni contro Israele, ignorando o minimizzando crimini ben più gravi di altri Stati. Un esempio è la conferenza di Durban, dominata da pulsioni anti-israeliane».
Le campagne mediatiche di queste settimane sembrano avere dimensioni planetarie. Cosa sta succedendo?
«Non ricordo nulla di simile. Abbiamo visto giornali come Le Monde, New York Times, Corriere della Sera, Repubblica pubblicare in sincrono immagini false, foto di bambini denutriti spacciate per attuali, ma provenienti in realtà dalla Siria di sette anni fa. È l’effetto di una saldatura tra le forze terroristiche, alcuni paesi arabi ostili a Israele e quei settori occidentali che vogliono abbattere l’Occidente stesso, ritenendolo esaurito nei suoi valori fondativi».
Come si esce da questa crisi? Quali iniziative diplomatiche sono realistiche?
«Serve un pacchetto complessivo: cessate il fuoco, rilascio simultaneo degli ostaggi, disarmo completo di Hamas, ritiro graduale dell’esercito israeliano da Gaza, massiccio flusso di aiuti umanitari e coinvolgimento di paesi arabi accettati da Israele in una forza di interposizione. Ci vuole poi un’amministrazione transitoria per Gaza, eventualmente affidata all’Autorità Palestinese. Ma nessuno oggi parla dell’unico elemento davvero essenziale: il riconoscimento, da parte palestinese e araba, dello Stato ebraico di Israele, non solo dello Stato di Israele. Senza questo passaggio, ogni prospettiva di pace è illusoria».
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