“Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). Alla fine, tutto ruota attorno a questa domanda. E il fatto stesso che Gesù l’abbia posta vuol dire che non è affatto scontato che, quando tornerà alla fine dei tempi, ci sarà ancora fede sulla terra. È una domanda che interpella la Chiesa in ogni epoca, tanto più oggi che imperversa una spaventosa crisi di fede.
Ora la cosa interessante è che, se sulla messa a fuoco della “malattia” c’è (abbastanza) consenso, è quando si passa alla “cura” da intraprendere che, invece, sorgono i problemi. Se, infatti, la parola d’ordine che risuona ovunque è che bisogna tornare ad annunciare il Vangelo, è di tutta evidenza come ci sia una certa confusione su cosa si intenda per evangelizzazione. Da qui l’altra domanda, tanto più impellente ora anche alla luce delle sfide che il mondo contemporaneo pone: cosa vuole fare la Chiesa? Adottare, come in Germania, il “modello Aronne”, abbassando l’asticella del Vangelo per dare al popolo ciò che il popolo chiede; oppure scegliere il “modello Mosè”, cercando di elevare gli uomini alla statura del Vangelo, adempiendo alla missione che Cristo le ha affidato, ossia evangelizzare il mondo perché il mondo, convertendosi, si salvi? Se la crisi che attanaglia la Chiesa è innanzitutto una crisi di fede, è evidente che non vi è altra via che provare a riaccendere la fiamma della fede nel cuore degli uomini. Nella consapevolezza che tanto grave è la situazione, tanto più forte e incisivo dev’essere il rimedio.
Di fronte alla crisi attuale ciò di cui la Chiesa ha bisogno è una cosa sola: riprendere e attuare il Concilio Vaticano II. Beninteso, quello vero, quello dei documenti. Concilio Vaticano II che, a distanza di sessant’anni, resta un evento straordinario dove lo Spirito Santo ha realmente ha parlato alla Chiesa suscitando un’azione di rinnovamento nella continuità, ciò in cui consiste l’essenza di ogni vera riforma, come ebbe a sottolineare Benedetto XVI nel monumentale discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005. Il Concilio in parte recepì le istanze del rinnovamento biblico, liturgico ed ecclesiologico degli anni precedenti, in parte ne suscitò di nuove, il tutto cristallizzandosi nei documenti finali che andrebbero riletti magari con un occhio più attento a quello che dicono (come si è sforzato di fare chi scrive in uno studio sul Concilio pubblicato di recente), che a quello che si vorrebbe che dicessero.
Grazie al Vaticano II è stata rimessa al centro della vita dei fedeli la Parola di Dio (Dei Verbum); è stata varata una riforma liturgica (Sacrosanctum concilium) dove la Messa non è più un assistere passivamente ad un rito, ma partecipazione attiva, personale e allo stesso tempo comunitaria al Mistero Pasquale di Cristo; è stata riproposta, tornando alle fonti, un’ecclesiologia (Lumen Gentium) dove la chiesa è Corpo di Cristo e popolo di Dio, all’interno della quale ciascun fedele, in virtù del battesimo, partecipa all’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo. Tre riforme – biblica, liturgica, ecclesiologica – che non solo non hanno scalfito di una virgola la Tradizione (altro sono “le” tradizioni, quelle sì suscettibili di cambiamenti), ma che anzi hanno posto le premesse perché il cristianesimo entrasse nella vita concreta, umana ed esistenziale delle persone. E senza dimenticare che proprio in quegli anni lo stesso Spirito che soffiava nella basilica di S. Pietro era all’opera per suscitare nuove realtà ecclesiali – movimenti e nuove comunità – dove molte delle istanze del Concilio hanno trovato attuazione.
È vero, dopo il Vaticano II ci furono sbandamenti, eccessi ed errori (accaduti in ogni caso non a causa del bensì nonostante il Concilio). Ma un conto è denunciare gli errori, tutt’altra storia è buttare il bambino con l’acqua sporca come fanno i nostalgici dei (presunti) bei tempi andati, convinti che sia sufficiente riportare le lancette dell’orologio alla Chiesa tridentina affinché l’uomo contemporaneo possa innamorarsi di Cristo: con la Messa in latino, senza alcuna connotazione assembleare, quindi propriamente ecclesiale, degna di questo nome siccome clerico-centrica; con il catechismo di s. Pio X, intellettualistico e nozionistico, per nulla biblico ed esistenziale; con la pastorale sacramentale, che la fede la presuppone; con una morale precettistica e tutto l’annesso armamentario delle pratiche di pietà.
Altrettanto miope è la prospettiva di chi, all’opposto, incurante del fatto che la Chiesa è una comunione gerarchica – tradotto: non è una democrazia – vagheggia riforme che sarebbero la classica toppa peggiore del buco. È vero, i tempi sono cambiati e la Chiesa deve stare al passo con i tempi. A patto però che questo non significhi adeguarsi allo spirito del tempo, né alle mode o alle tendenze del momento. E avendo sempre presente che la missione della Chiesa è di condurre il mondo a Cristo, non di farsi ben volere da esso.
