L’Italia è oggi il secondo produttore europeo di acciaio dopo la Germania, con un comparto che genera un valore superiore ai 40 miliardi di euro e occupa oltre 80 mila addetti tra diretto e indotto. Una filiera strategica, tanto più in un’epoca in cui i temi dell’approvvigionamento di materie prime, della sovranità industriale e della transizione tecnologica tornano al centro delle agende europee. A guidare Federacciai, l’associazione che rappresenta le aziende italiane della siderurgia, è Antonio Gozzi, imprenditore ligure, che da anni unisce la visione industriale a un solido pensiero politico-economico. Ma nell’era della space economy, qual è il ruolo dell’acciaio?
Presidente Gozzi, l’Italia guarda con ambizione alla space economy. Ma in un contesto dominato da Stati Uniti e Cina, ha senso parlare di una filiera spaziale europea e italiana?
«La questione è tutta nella differenza tra ciò che hanno fatto gli altri e ciò che l’Europa non è ancora riuscita a fare. Gli Stati Uniti hanno già in orbita più di 4.000 satelliti, grazie soprattutto all’iniziativa privata e all’accelerazione strategica degli ultimi anni. L’Europa, pur avendo speso cifre enormi e avendo competenze solide, è ancora al palo. Eppure, l’Italia ha un’industria spaziale importante, tra le migliori del continente. Il punto è che servono scelte rapide e concrete. L’Europa deve smettere di essere lenta e troppo attenta alle procedure: servono azione e capacità esecutiva. Costruire una filiera spaziale è possibile, ma solo se si cambia passo».
In questo scenario, quale può essere il ruolo della siderurgia italiana?
«Lo spazio è un ambito in cui l’acciaio entra poco. I materiali predominanti sono leghe speciali, compositi, componenti tecnologici che vanno oltre l’ambito della produzione siderurgica tradizionale. Ma se allarghiamo il campo alla difesa e alla sicurezza – che sono pilastri della sovranità strategica – allora il ruolo dell’acciaio torna centrale. Pensiamo alla cantieristica navale militare, alla logistica, alle infrastrutture critiche. Senza acciaio non si costruiscono mezzi né piattaforme. Se per realizzare asset strategici dobbiamo dipendere da altri Paesi, allora l’autonomia europea diventa solo una parola vuota».
E per quanto riguarda le materie prime? La space economy dipende fortemente da elementi critici come litio, terre rare e rame. Quanto pesa la geopolitica in questa partita?
«Pesa moltissimo. Tutte le tecnologie legate allo spazio – dai semiconduttori alla sensoristica – richiedono materiali che l’Europa non possiede in quantità sufficiente. E anche quando li ha, spesso manca la capacità di raffinazione. È su questo che la Cina ha costruito un ruolo dominante: non solo ha accesso alle miniere, ma controlla la trasformazione, il valore aggiunto. E noi oggi ne siamo fortemente dipendenti. Le terre rare, il litio, il titanio, il tungsteno: sono tutte risorse che arrivano dall’esterno. Questo ci rende fragili. Serve una strategia comune europea, altrimenti resteremo esposti ai ricatti di chi detiene il potere delle risorse».
Federacciai da anni porta avanti il tema del rottame come materia strategica. Perché è così importante?
«Il rottame è per noi una risorsa fondamentale, perché rappresenta la base per produrre acciaio in modo sostenibile, con un impatto ambientale ridotto. È, a tutti gli effetti, una materia prima critica. Eppure, l’Europa ancora non lo riconosce come tale. Ogni anno milioni di tonnellate di rottame lasciano il continente per alimentare la crescita di altri sistemi industriali. È un paradosso. Da anni chiediamo che venga inserito tra le materie prime strategiche europee, e qualcosa si sta muovendo, ma troppo lentamente. Il mondo corre, noi dobbiamo smettere di perderci nei dettagli e recuperare visione».
Guardando in avanti: quale ruolo dovrebbe giocare l’Italia da qui ai prossimi vent’anni?
«Credo che il nostro Paese debba ambire a un ruolo centrale nel Mediterraneo. Per posizione geografica, relazioni storiche, affinità culturali, possiamo essere un punto di connessione naturale tra Europa e Nord Africa. Quest’area è destinata a crescere molto, e può rappresentare per noi una doppia opportunità: da un lato nuovi mercati industriali, dall’altro un bacino di manodopera qualificata, che oggi ci manca. L’industria italiana soffre una carenza strutturale di tecnici e operatori specializzati. Se sapremo costruire filiere intelligenti e integrate, potremo essere protagonisti in un equilibrio industriale nuovo, più aperto e più strategico».
