Chi non sta con noi, sa cosa lo aspetta. Questo è il monito implicito lanciato da Donald Trump, quando, parlando alla Knesset, ha elencato al dettaglio l’ineguagliabile capacità strategica delle forze armate Usa. È quasi superfluo andare a cercare su un mappamondo chi sarebbero gli esclusi da questa nuova pax americana e i potenziali sabotatori. Iran, Cina e Russia sono i grandi assenti a Sharm el-Sheikh.
Il regime di Teheran è quello a cui Trump, al parlamento israeliano, ha fatto esplicito riferimento. È stato invitato al summit, ma ha declinato. Mossa astuta, quella di Washington. Così non le si potrà dire che non parla con il nemico. D’altra parte, il dossier iraniano resta aperto. La questione nucleare, la potenziale ripresa delle attività terroristiche in Cisgiordania e gli Houthi sono le priorità che chiamano in causa anche Israele. La corsa all’atomica degli Ayatollah è rimasta in stand by. Su come riprendere i negoziati, il Gruppo E3 (Francia, Germania e Regno Unito) è cauto. Come anche gli Usa. I falchi israeliani, in questo momento, non possono spiccare il volo. L’importante è che l’Iran non esca dal Trattato di non proliferazione nucleare. In caso contrario, si creerebbero le condizioni per un nuovo scontro diretto. Che non conviene nessuno. Ecco perché il regime starebbe valutando su quale proxy, ancora in grado di combattere, investire altre risorse.
Le forze di sicurezza israeliane hanno prove di un crescente contatto tra i Pasdaran e le brigate jihadiste Al-Quds. Soprattutto nella zona di Ramallah. Ora che Gaza è persa, la West Bank potrebbe diventare un nuovo fronte di guerra ibrida. Nello spirito di collegialità del piano Trump però, è importante che le azioni di contenimento dell’Idf vengano fatte in parallelo con le forze dell’Anp e con l’esercito giordano. Tra lo Yemen e le sue acque circostanti si sta combattendo una guerra per procura. Israele fornisce equipaggiamento alle forze speciali dell’esercito regolare di Sana’a. L’Iran fa altrettanto per gli Houthi sul territorio e per i pirati nel golfo di Aden. Sulla carta, il contesto è eccellente per intensificare l’instabilità.
All’atto pratico, emerge il dubbio se sia saggio stressare le catene di approvvigionamento Est-Ovest, che passano dal Mar Rosso e così infastidire il più importante alleato del regime: Pechino. Si tratta infatti di rotte navali primarie nel progetto cinese della Belt and road initiative (Bri), che mira a rafforzare la connettività infrastrutturale e commerciale tra l’Asia e l’Europa. Per tradizione inoltre, la superpotenza asiatica ritiene che entrare in merito a conflitti altrui voglia dire creare dei precedenti su cui gli avversari potrebbero far leva per un eventuale peggioramento della questione Taiwan. D’altra parte, è noto il cambiamento di strategia perseguito da Xi Jinping. Agli interessi economici, si stanno affiancando attività diplomatiche sempre più intense. E non solo con l’Iran. Pechino ha rafforzato anche i legami con l’Arabia Saudita, suo più grande fornitore di petrolio. Ed è proprio nella capitale cinese che, nel marzo 2023, Iran e Arabia Saudita hanno firmato un accordo per la ripresa delle relazioni diplomatiche. La Cina poi si è spesa in favore della causa palestinese, ospitandone fazioni e inviando aiuti umanitari a Gaza.
Ecco perché il piano di Trump è un ostacolo alla sua fresca, ma ambiziosa presenza nella regione. È un motivo valido per sabotarlo? Difficile a dirsi. Le frizioni Usa-Cina sono ai massimi livelli. E su più fronti. Rovinare i giochi mediorientali di Trump ha il sapore più di un diversivo, invece che un attacco frontale – per esempio sui dazi, sui chip e su Taiwan – che la Cina potrebbe sferrare ai danni degli Usa e quindi di tutto l’Occidente. Infine la Russia. Osservando le mosse e le parole del presidente Usa, a Putin sembra che venga detto: “Avanti il prossimo”.
L’assenza di un inviato del Cremlino a Sharm è una sconfitta diplomatica per il presidente russo, che ha sacrificato anche la storica presenza della Russia in Medio Oriente per la causa ucraina. Anche questa è una buona ragione per chiudere il conflitto con Kiyv. Trump potrebbe farlo alla sua maniera. Facendo leva su Netanyahu, cha ha un buon rapporto con Putin, che a sua volta va ripreso perché troppo squilibrato in favore di Pechino. Il presidente Usa, invece, potrebbe convincere a un accordo Zelensky, con cui oggi è “in buona”. È una mossa a tenaglia che, se dovesse funzionare, aprirebbe una nuova stagione di relazioni internazionali. Con Washington sugli scudi e Pechino emarginata.
