Al Consiglio Ue passa la linea Meloni-Macron, ma il compromesso sull’Ucraina è precario

EMMANUEL MACRON PRESIDENTE FRANCIA, DONALD TUSK PRIMO MINISTRO POLONIA, GIORGIA MELONI PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

Fare il gioco di chi vince e chi perde in questo Consiglio Ue è già di per sé una sentenza di sconfitta per tutta l’Europa. Mostrando le scissioni su asset russi e Mercosur, Bruxelles non si è giocata soltanto il sostegno alla causa ucraina, confermato nottetempo con le modalità che la Commissione non desiderava. Oppure l’apertura di un canale preferenziale nel libero scambio con l’America latina. No: per com’è andato il Consiglio, quanto detto da Trump, Musk, eccetera – pur nei toni certamente grevi – ha una sua fondatezza.

L’Europa continuerà a sostenere l’Ucraina. Come vuole la maggioranza dei suoi Paesi membri. Gli asset russi non verranno toccati e si ricorrerà al debito comune. Deng Xiaoping diceva che non è importante il colore del gatto, purché sappia prendere il topo. Zelensky potrebbe prenderla in questo modo. Tanto più che l’alternativa era non ottenere nulla. È una soluzione a tempo. Bisognerà vedere alla fine del 2026 se e come rimodularla. Ammesso e non concesso che per quella data non si arrivi a un accordo di pace. In tal caso, si potrà tornare a parlare di soldi del Cremlino in mano nostra come risarcimento di guerra.

La Germania è la grande sconfitta. Merz, come pure von der Leyen, ha smosso mari e monti perché passasse il ricorso agli asset. Berlino ha due nemici: Mosca e il debito. Anche quello che non è direttamente riconducibile alle sue finanze. Il timore della cancelleria è che, prima o poi, questo stress di spesa comunitaria ricada appunto sui bilanci nazionali. Solo per ora non è così. D’altra parte, il debito comune è il segno che l’Europa, seppur sfinita da un 2025 di dure prove, ha ancora qualche carta da giocarsi. Se non altro, per la sua disponibilità di spesa.

Dall’accordo vengono lasciati fuori i governi filoputinisti. Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria hanno giocato in favore del Belgio, che a sua volta li ha sfruttati perché passasse il “no” agli asset. I primi in quanto mossi da questioni ideologiche, il Belgio da ragioni finanziarie. In parte sensate. C’è chi mette Bratislava, Budapest e Praga tra i vincitori della nottata. Per certi aspetti, è vero. Viene però da chiedersi quanto si possa andare avanti con questa convivenza. Euroscettici e anti-atlantisti emarginati sempre più spesso in Consiglio, oppure che se ne sfilano volontariamente. Salvo poi godere di tutti i benefici di essere membri di un club ricco e facoltoso come quello europeo.

I veri vincitori sono però Italia e Francia. Entrambi hanno fin da subito manifestato perplessità in merito al ricorso agli asset russi per finanziare l’Ucraina. Non soltanto per un discorso di credibilità sui mercati. I dubbi erano stati sollevati anche dalla Bce. Ma anche per le modalità di negoziazione di von der Leyen. Se è vero – come si dice – che la presidente Ue ha iniziato a valutare la strada degli asset già a settembre, senza però consultarsi in camera caritatis con i Paesi direttamente coinvolti, siamo di fronte a un eccesso di decisionismo da parte di un esecutivo privo di quelle prerogative. Tutti sognano un’Europa più dinamica e meno vincolata agli interessi contrastanti tra i suoi Stati membri. Ma per renderla tale serve una riforma. Non la libera iniziativa di Bruxelles.

Meloni e Macron non si vogliono bene. È un dato di fatto. Lo è altrettanto la condivisione di destini delle nostre due nazioni. Tant’è che il gioco di coppia non si è limitato al dossier Ucraina, ma ha bloccato anche l’accordo con il Mercosur. Oggi von der Leyen sarebbe dovuta volare in Brasile per la firma del trattato. Il viaggio è stato rimandato al 12 gennaio. Difficile che per allora le richieste di maggiore reciprocità e nuove tutele dei prodotti europei possano essere integrate nell’accordo. Francia e Italia su questo dossier si sono mosse come hanno fatto sempre. E quindi com’era prevedibile. Nonostante le rimostranze di Confindustria e Medef – l’associazione degli imprenditori francesi – ha prevalso la voce della filiera dell’agrifood. I nostri standard di sicurezza alimentare e ambientale non hanno paragoni con nessun altro mercato. L’Unesco ha dato il sigillo di patrimonio immateriale dell’umanità alla cucina italiana non solo perché carbonara e cotoletta sono buone. Ma perché rientrano in una filiera agroalimentare, di respiro europeo, di portata industriale, ma qualitativamente sostenibile. Secondo Roma e Parigi, l’accordo con il Mercosur rischia di compromettere questa posizione di mercato. Con le immaginabili conseguenze economiche e politiche.

Ricordiamoci che gli agricoltori votano. E quando lo fanno, sono mossi da una collera che o si manifesta in espressioni sanguigne, come quelle viste nelle strade di Bruxelles appena giovedì, oppure tendono a sostenere le forze più euroscettiche e populiste. Per evitarlo, bisogna riconoscere il loro giusto peso produttivo. Questo non è atteggiamento da provinciali, come detto da alcuni verso Meloni e Macron. Eliseo e Palazzo Chigi hanno risposto a un loro elettorato che si comporta allo stesso modo anche in Paesi che il Mercosur lo vorrebbero fin da domani. Vedi la Germania.