Ci risiamo. Ogni volta che si pronunciano le parole “permesso-premio” è come agitare il classico drappo rosso davanti al toro. È capitato nei giorni scorsi alla notizia che, dopo 25 anni di carcere, l’ergastolano Alberto Savi aveva trascorso il natale in famiglia. Savi è il minore dei tre fratelli che sul finire degli anni Ottanta insanguinarono l’Emilia con rapine, ferimenti, omicidi. Si chiamavano la “banda della Uno bianca”. Erano poliziotti, erano feroci. Sono stati arrestati, processati, condannati all’ergastolo. Il maggiore dei tre, Roberto, ha chiesto per due volte la grazia, gli è stata rifiutata. Alberto, il minore, era già uscito in permesso altre due volte, ma il fatto era passato inosservato.
Ma questa volta la sua uscita dal carcere ha coinciso casualmente con la data dell’uccisione di tre carabinieri, che venivano commemorati proprio negli stessi giorni. E la commozione si è trasformata in rabbia, non solo da parte dei parenti delle vittime, ma dal solito contorno di giornalisti, esponenti politici, magistrati. Ma la rabbia non può ispirare il legislatore né il magistrato. E neanche le parti civili, crediamo. Anche se è più difficile dirlo. Perché è vero che, in questo come in altri casi, gli assassini sono pur sempre vivi e le vittime sono morte. Ma la giustizia ha funzionato, visto che i colpevoli hanno avuto un regolare processo e sono stati condannati alla pena massima prevista dal nostro ordinamento. In cui non è contemplata la pena di morte, per fortuna. E siamo sicuri che nessuno tra i parenti delle vittime che protestano ogni volta che un condannato per un grave delitto ottiene un permesso di uscita dal carcere sarebbe favorevole al ripristino della pena capitale. Nessuno vuole vendetta, si sente ripetere, ma solo “giustizia”.
Pure, la frase è sempre la stessa: buttare via la chiave. Cioè, inconsapevolmente, pur non volendo uccidere si vuole creare i sepolti vivi. Chi ha ucciso deve a sua volta essere ucciso, lasciato a languire in una sorta di segreta fino a morirne. Senza speranza, quasi una sorta di Dorian Gray mummificato nell’immagine di come era quel giorno, quando era giovane, spavaldo e assassino. Il suo invecchiamento non è previsto, e così il suo cambiamento. Alberto Savi, che ieri era l’immagine stessa di Caino, oggi ha 54 anni e ha trascorso metà della sua vita in carcere. Secondo le statistiche della natalità oggi in Italia, ha una previsione di vita di circa altri 30 anni. Se ha ottenuto già tre permessi, significa che il magistrato di sorveglianza, e con lui tutta la squadra che ha osservato il suo percorso, ha rilevato il cambiamento. E non crediamo che oggi lui si rimetterebbe mai dentro una Uno bianca con le armi in pugno. È un’altra persona, e ha scontato 25 anni di carcere, una vita. Non è giunto il momento di dare concretezza all’articolo 27 della Costituzione, di crederci davvero? O consentiamo alla rabbia, quella dei parenti ma anche quella di giornalisti-politici-magistrati, di farsi legislatore e giudice? E quindi di comminare, nei fatti, una nuova forma di pena di morte?
Ma la rabbia non è figlia unica, è gemella siamese della vendetta, la vendetta impotente dello Stato che non riesce a processare in tempi congrui, a dare giustizia a colpevoli e innocenti e neanche alle vittime dei reati. Di fronte al proprio fallimento, di fronte all’ipocrisia della finta obbligatorietà dell’azione penale, di fronte all’incapacità di applicare processi brevi e misure alternative, si sceglie la via della vendetta. Che cosa è se non vendetta, come nella favola del lupo e l’agnello, nei confronti dei soggetti deboli del processo, cioè l’imputato e la vittima, l’abolizione della prescrizione, il processo eterno? La vendetta è l’opposto della giustizia.
La terza sorella è meno conosciuta delle altre due, è la paranoia, quella che fa invocare (si potrebbero citare tanti famosi processi) la ricerca dei mandanti, ogni volta che una sentenza non ci soddisfa del tutto. Capita nei processi sulle stragi o sui grandi eventi come sciagure ferroviarie o incendi. La ricerca paranoide del capro espiatorio “in alto” è molto consolatoria ma non porta lontano. Come del resto la rabbia e la vendetta. Perché quando le tre sorelle, rabbia, vendetta e paranoia entrano dalla porta, è la giustizia a uscire dalla finestra.
