Antisemitismo a Harvard, la task force conferma le lezioni contro il sionismo

Graduates listen to speakers while displaying "Free Palestine" signs on their mortarboards during commencement ceremonies at Harvard University, Thursday, May 29, 2025, in Cambridge, Mass. (AP Photo/Charles Krupa) Associated Press/LaPresse

Il braccio di ferro tra Harvard e Trump potrebbe concludersi la settimana prossima, con un accordo transattivo da mezzo miliardo di dollari che sbloccherebbe due miliardi di dollari in fondi federali e risolverebbe la causa che il più antico ateneo statunitense ha intentato contro il governo. Questo l’ha visionata, accusandola di antisemitismo. Secondo la stampa americana, Harvard avrebbe preso la decisione come male minore, in attesa delle presidenziali del 2028. Strategia pagante? Lo dirà il tempo.

Quello che è già chiaro – a prescindere dal cattivo rapporto della destra statunitense con l’istruzione e la libertà d’insegnamento in generale, tema sul quale sarà necessario tornare – è che a Harvard l’antisemitismo esiste davvero, da ben prima del 7 ottobre 2023, o meglio della reazione israeliana ai massacri di Hamas. È questa la realtà catturata dalla task force istituita dal rettore di Harvard in risposta all’accusa di non far nulla contro antisemitismo e pregiudizio anti-israeliano. Già l’introduzione è eloquente: a uno studente viene vietato di ricordare come il nonno fosse sopravvissuto all’Olocausto emigrando nell’allora Palestina Mandataria e di come avesse aiutato altri a fare altrettanto. Il motivo? Il racconto sarebbe stato poco rispettoso dei palestinesi.

Scorrendo le oltre 300 pagine, il rapporto certifica come dal 2000 il dialogo tra studenti si sia logorato: posizioni un tempo marginali sono diventate la norma, mentre le tattiche di “anti-normalizzazione” hanno escluso collaborazioni tra israeliani e palestinesi se non rigidamente politicizzate. Tra “notifiche di sfratto” e installazioni che equiparavano il sionismo al razzismo, a radicalizzare il clima è stato il movimento BDS, con proteste mirate. Sui social, campagne di shaming e messaggi ostili hanno rafforzato l’idea di negare l’esistenza stessa dello Stato di Israele (la cosiddetta “eccezione Israele”). Il risultato è che molti studenti sono costretti a celare la propria identità ebraica e che nel 2023 la presenza ebraica è scesa sotto il 10%.

Negli USA, dove imperano correttezza politica e woke, colpisce che su un tema tanto delicato sia stata tollerata una tale mancanza di pluralismo accademico e regole chiare da far percepire a così tanti studenti l’università come spazio ostile. Alla Harvard T.H. Chan School of Public Health, il corso Settler Colonial Determinants of Health proponeva letture che dipingevano il sionismo come artificio religioso e l’identità palestinese come unica autentica. Non a caso, la parola “genocidio” appariva 13 volte, “apartheid” quattro volte e “ostaggio” zero (p. 153). C’è da stupirsi se alcuni studenti hanno letto in questo una giustificazione implicita delle violenze del 7 ottobre, mentre le loro obiezioni venivano liquidate come «mosse del colono verso l’innocenza?». Alla Graduate School of Education, un relatore a un Teach-in (“lezione autogestita”) ha rifiutato di rispondere a una domanda sul 7 ottobre fatta da uno studente dal nome ebraico dicendo «Non sono a un interrogatorio», episodio poi definito “antisemita” dagli amministratori.

Alla Divinity School, una docente ha escluso fonti israeliane dal syllabus a favore della sola letteratura palestinese, dando agli studenti l’idea che il sionismo fosse un progetto di religiosità fittizia. Alla Law School, un Teaching Fellow (assistente all’insegnamento) ha invitato via email a “piangere solo le vite perdute a Gaza”, senza menzionare le vittime israeliane, usando la sua posizione per diffondere un messaggio unilaterale. Si potrebbe continuare. Ma il fatto che il medico prescriva la terapia sbagliata non vuol dire che il paziente sia sano. D’altra parte, già nel 1965, Tom Lehrer, una sorta di Jannacci americano, denunciava già l’ipocrisia degli obiettivi americani di fratellanza universale cantando che «…everybody hates the Jews!». Poiché si era laureato in matematica a Harvard nel 1946, bisogna concludere non solo che l’università non gli fece cambiare idea, ma anche che da allora poco è cambiato.