“Auguri e figli maschi!”, a determinare il gender gap è anche il sesso dei bambini: l’arrivo di una femmina renderebbe le mamme più tradizionaliste e casalinghe

Seguimi bene, perché il tema è complesso. Partiamo da un assunto che non voglio più mettere in discussione: il gender gap, il divario tra uomini e donne nel mercato del lavoro, è una questione fondamentale – soprattutto in Italia – e va affrontata. Ma per farlo dobbiamo capirlo a fondo. Pochi giorni fa, il professor Henrik Kleven (Princeton University), insieme a Camille Landais e Gabriel Leite-Mariante (London School of Economics), ha pubblicato un atlante sul gender gap analizzando 134 Paesi nel mondo. Non si tratta della solita classifica che ci colloca come “fanalino di coda”, ma di uno studio approfondito che evidenzia elementi cruciali.

I tre fattori del gender gap

Innanzitutto, il gender gap risulta composto da tre fattori: la nascita di un figlio (child penalty), la creazione di una famiglia (marriage/family penalty) e un insieme di elementi “residuali” (accesso diseguale all’istruzione, discriminazione di genere, ecc.). Collocando su un asse il gender gap e sull’altro il prodotto interno lordo, si ottiene una rappresentazione globale del fenomeno. In sintesi: nei Paesi meno sviluppati (ammesso che il PIL sia un indicatore assoluto di sviluppo), il gender gap è minore e le sue cause si distribuiscono equamente tra formazione della famiglia e fattori residuali. Al crescere del PIL, il gender gap aumenta e raggiunge il massimo nei Paesi in via di sviluppo (l’America Latina è l’esempio più lampante). Nei Paesi più avanzati, invece, la causa principale è la nascita di un figlio. Osservando altri grafici dello studio, l’effetto è impressionante: tracciando l’andamento delle carriere – ad esempio retributive – di padri e madri dopo il primo figlio, si nota una biforcazione netta. Per i padri tutto prosegue come prima. Per le madri, invece, c’è un tracollo da “venerdì nero di Wall Street”, recuperato solo parzialmente negli anni successivi. Curiosamente, per gli uomini la nascita di un figlio coincide con un lieve aumento salariale, probabilmente dovuto alla percezione – da parte dei datori di lavoro – che “ora ha una famiglia”. Per le donne, invece, è un precipizio. Il gender gap in Italia è (non esclusivamente, ma soprattutto) child penalty.

Lo studio sulle madri di figlie femmine

Mi sono poi imbattuto in un altro studio appena pubblicato, firmato da Sonia Bhalotra (Università di Warwick), Damian Clarke (Università del Cile) e Olga Nazarova (Università di Oxford). Gli autori si interrogano sulla child penalty e scoprono che la vera questione è un’altra: la daughter penalty: tra donne con figlie e donne con figli, la differenza (almeno nel Regno Unito) è clamorosa. Le madri di figlie femmine subiscono una riduzione media del 26% del reddito nei cinque anni successivi al parto, mentre le madri di figli maschi registrano un calo del 3%: una differenza di 23 punti percentuali. L’effetto, inoltre, è persistente: non si tratta di un impatto iniziale, ma di un cambiamento strutturale. Analogamente, il tasso di occupazione delle madri di figlie cala del 20%, contro il 6% di quelle con figli maschi. Un effetto triplo. E non è tutto. Le madri di figlie dichiarano – in quasi il 10% del campione – un ruolo più centralizzato e assorbente nella vita familiare. Presentano, inoltre, un peggioramento del benessere mentale (scala SF-12) con una perdita superiore del 4% rispetto alle madri di maschi, probabilmente a causa del maggior carico di caregiving. Secondo i ricercatori, le madri di figlie tendono a sviluppare valori più tradizionalisti rispetto ai ruoli di genere, influenzando anche il consumo mediatico e le preferenze politiche. Persino le donne più istruite o inizialmente progressiste diventano, nel tempo, più conservatrici sui diritti delle donne.

Il padre e i suoi… benefici

Nel frattempo, il padre non modifica né i propri guadagni né la propria occupazione. Anzi, riferisce un aumento della soddisfazione coniugale. Sembra anzi beneficiare di una ristrutturazione tradizionale dei ruoli domestici che riduce il suo coinvolgimento nella cura dei figli. Le coppie con figlie tendono ad accentuare la specializzazione domestica e, con una probabilità superiore del 10% rispetto a chi ha avuto un maschio, decidono di avere (entro cinque anni) un secondo figlio. Gli autori ipotizzano che, persino nella civilissima Gran Bretagna, il figlio maschio sia ancora preferito. Capito? Quando nasce una primogenita, anche una donna progressista tende a diventare più tradizionalista nei ruoli di genere, si ritira dal lavoro e si dedica a una famiglia “tradizionale” esponendo, di conseguenza, la figlia (a sua volta) ad un ambiente più tradizionale. È vero, questa ricerca è stata condotta nel Regno Unito. Magari da noi è diverso. Ma ipotizziamo, per un attimo, che valga anche in Italia. Perché accade tutto questo?

Lo studio ha “controllato” tutte le principali variabili per isolare l’effetto del sesso del primogenito e, per quanto sia difficile da accettare, non possiamo attribuire la causa alla cultura, al contesto o alle dinamiche di coppia. Nessuna di queste determina il sesso del nascituro. E tolgo subito anche un altro alibi interpretativo. È stato scelto a monte di eliminare dalla ricerca le minoranze etniche. Siamo di fronte a qualcosa di nuovo. Le donne, quando hanno una figlia, sembrano attivare un modello femminile tradizionale (nel senso peggiore del termine). Perché?

Le due spiegazioni

Due spiegazioni. La prima: forse anche le madri più colte e progressiste, inconsciamente, dicono alle figlie “Tu non sarai libera. E io, per amore, lo accetto prima di te”. Oppure: forse i padri, di fronte a una figlia, si disimpegnano più facilmente, lasciando che tutto il carico familiare ricada sulla madre. Forse per non dare davanti alle figlie l’idea di una mascolinità debole. Può essere, ma io credo anche – e di più – in una seconda spiegazione. Potrebbero entrare in gioco dinamiche psicologiche profonde: il rapporto con la propria madre, il desiderio di essere “una buona madre”, la tendenza a replicare – inconsciamente – il modello ricevuto, anche a costo di disconoscere i progressi della cultura paritaria. Questo spiegherebbe di più perché le madri di figlie cambiano i propri consumi mediatici e l’opinione politica. Se questo fosse vero, allora il gender gap non sarebbe solo figlio del patriarcato, ma anche di un “matriarcato affettivo”. Un modello femminile che spinge a voler essere madri perfette di figlie perfette, senza riuscire a spezzare il confronto eterno con la propria madre.

La narrazione femminista classica ha avuto il merito di denunciare le strutture oppressive. Ma oggi quelle strutture sono più sottili, endogene, psicologiche. E l’approccio femminista funziona di meno creando sempre meno consenso su questo tema negli uomini. Questa ricerca ci impone di rivedere l’idea che la disuguaglianza sia solo una contrapposizione tra uomo e donna. I bias e gli stereotipi non sono solo maschili. Forse anche le madri sono vittime – o agenti inconsapevoli – degli stessi stereotipi che combattono. Il problema lo creiamo insieme, uomini e donne, ciascuno per la propria parte, ciascuno per la propria responsabilità. Esiste un lato oscuro femminile su questi temi che va compreso, affrontato, trasformato. Non per assegnare nuove colpe, ma per liberare davvero figlie e figli, smettendola – una volta per tutte – di cercare un solo colpevole.