L'€conomista
Auto elettriche, il 40% del valore è nelle batterie. E la domande cresce meno del previsto
Nel pacchetto automotive che la Commissione europea presenterà il 10 dicembre, insieme al nuovo Industrial Accelerator Act, si concentra una delle scelte di politica industriale più rilevanti degli ultimi anni: l’introduzione di un requisito di contenuto europeo obbligatorio per i veicoli immessi sul mercato dell’UE. Nella versione più ambiziosa, fino al 75% del valore di un’auto elettrica dovrebbe provenire da componenti prodotti o assemblati in Europa, con un capitolo centrale dedicato alle batterie, destinate a diventare il vero baricentro della competitività futura.
Auto elettriche, il 40% del valore è delle batterie
Le batterie rappresentano oggi fino al 40% del valore del veicolo e, nonostante i nuovi annunci di giga-factory, la capacità europea resta insufficiente. Le bozze di regolamento includono tra i requisiti “locali” non solo le celle, ma anche catodi, anodi, elettronica di potenza e sistemi termici: un salto normativo significativo per un continente che importa quasi tutti i materiali raffinati necessari. La Commissione ha messo sul tavolo 1,8 miliardi per nuove linee produttive nel triennio 2025-2027, ma i nodi strutturali restano: filiera dei semiconduttori fragile, costi energetici superiori del 30-40% a USA e Asia e tempi lunghi per sviluppare la supply chain delle batterie. Sul fronte politico, la recente lettera del cancelliere tedesco Friedrich Merz a von der Leyen chiede maggiore flessibilità sulle norme emissive, avvertendo che rigidità eccessive rischiano di frenare competitività e investimenti, segnale di un crescente malessere anche nei Paesi con forte tradizione automobilistica.
I dati delle auto elettriche
Le ricadute di un approccio troppo rigido potrebbero essere pesanti. La domanda di auto elettriche cresce meno del previsto, i bonus sono stati ridotti e il prezzo medio rimane superiore del 20-30% rispetto ai modelli termici. Una riconfigurazione forzata delle catene di fornitura aumenterebbe ulteriormente i costi industriali, incidendo sui listini e deprimendo la domanda. Oltre metà delle elettriche vendute in Europa proviene da Paesi extra-UE e molte tecnologie chiave sono sviluppate da produttori globali con economie di scala difficili da replicare nel breve termine. A livello macroeconomico, la transizione elettrica si sovrappone a un contesto già debole: nel 2024-2025 la filiera dei componenti ha registrato oltre 30 mila tagli occupazionali, che diventano 58 mila dal 2020. Senza energia competitiva, la re-industrializzazione immaginata da Bruxelles rischia di scontrarsi con condizioni di mercato insostenibili.
Per questo diversi osservatori avvertono che regole troppo rigide sul local content potrebbero scoraggiare gli investimenti esteri proprio mentre nuovi attori globali valutano l’apertura di impianti, centri R&D e joint venture in Europa. Un approccio più flessibile — obiettivi progressivi, calcolo su base aggregata, tempi di adeguamento più lunghi — attirerebbe capitali e know-how, invece di respingerli.
Il rischio è che la tutela dell’industria europea si trasformi in protezionismo involontario, frenando innovazione e rallentando gli obiettivi climatici del 2030. La competitività non nasce dalle barriere, ma da condizioni che rendano l’Europa il luogo più conveniente dove produrre, premiando investimenti reali indipendentemente dalla nazionalità delle imprese. Per farlo, però, servono regole chiare, energeticamente sostenibili e – soprattutto – capaci di attrarre capitale industriale, non di allontanarlo.
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