Autobiografia di Woody Allen messa all’indice, ma l’Italia la pubblica

Nella sua autobiografia, Woody Allen restituisce se stesso, il suo percorso di autore, in quella linea della comicità “ebraica” che muove dai fratelli Marx, dai suoi primi film come Prendi soldi e scappa, poi gli omaggi a Bergman e a Fellini. L’attenzione verso il suo privato non ha mai incuriosito più di tanto il suo pubblico fidelizzato, nessun interesse verso le voci, metti, secondo cui Mia Farrow abbia chiesto al suo ex Frank Sinatra di trovare uno “spezzaossa” che mettesse a posto Allen, e ancora la relazione con Diane Keaton, sua attrice-feticcio che l’ha accompagnato nel racconto, sì, del nevrotico, ma anche, a suo modo, dell’anti sex symbol per definizione, quasi che Woody Allen abbia da dato dignità agli impacciati, in questo senso non si può che fare ritorno a quel Provaci ancora Sam, il film che seppe rivelarlo al grande pubblico. Lo stesso che non ha ritenuto necessario sindacare circa la sua relazione con la figlia adottiva Soon Yi. E ancora il merito incommensurabile di avere realizzato opere come “Zelig”, la storia dell’uomo camaleonte, capace di trasformarsi in tutto e nel contrario di se stesso. Poi, anni dopo, aver donato al cinema un gioiello come Harry a pezzi, dove ritrova il suo fulgore straordinario e si racconta colpito dal disturbo che lo mostra sfocato. È stato in quell’occasione che l’ho incontrato, Allen si era così tanto immedesimato nel personaggio che sembrava avanzare come un autentico non vedente. Scorgendolo da dietro, con la sua nuca, sembrava di riconoscere in lui Sten Laurel, tracciava il suo autografo con aria e mano smarrite, così molto prima che cominciasse l’epoca dei selfie. Nell’ideale scaffale dei libri dei grandi interpreti di se stessi, la sua autobiografia ha ben diritto di figurare accanto ai testi di Groucho Marx. Peccato che qualcuno avrebbe voluto metterli all’indice. Che illusi, tutti noi, a pensare che la caccia alle streghe fosse finita con la scomparsa del senatore Joseph McCarthy.