Bandiere, volti e agit-prop: in quelle immagini il sogno del riscatto

La livrea grafica del Pci era blu. Il suo volto pubblico sui muri rispondeva soprattutto a quel colore, come lo sfondo di un leggendario manifesto elettorale, dove si mostrava il simbolo accompagnato da una scritta inequivocabile, un invito, un appello a simpatizzare, ad aderire: “Vota comunista”. Il rosso apparteneva semmai al tessuto che rivestiva i palchi dei comizi, da Togliatti a Longo, da Berlinguer a Natta e Occhetto, ed era un rosso brunito tra tela e velluto. Poi giungevano le bandiere, frangiate d’oro, i nomi delle sezioni riportati con un lavoro fitto di ricamo. Diversamente da altri partiti “fratelli” (pensiamo al Pcf) che non hanno mai fatto sfoggio di iconografia, il Partito comunista italiano aveva invece una cornucopia iconica inenarrabile, inesauribile, forte nel tempo delle affissioni pubbliche, in epoche non ancora dominate dalla “comunicazione” televisiva, per non dire “social”.
Il repertorio completo mostrava, in ordine sparso: distintivi, tessere, manifesti, adesivi, opuscoli, fazzoletti, coccarde, “l’Almanacco” annuale, e ancora festoni per le Feste de l’Unità e le sue coreografie e i suoi carri, le stesse kermesse che Guareschi deride nelle pagine della saga di Don Camillo.
Trattando invece del simbolo, errato che sia stato Renato Guttuso a disegnarlo, il pittore realizzò semmai, oltre a ogni genere di manifesto e disegno per la prima pagina dell’organo del partito nelle ricorrenze ufficiali, la tessera del 1945: falce e martello innalzate e affioranti da un vessillo, la bandiera rossa trionfante. Il simbolo invece nasce da un lavoro di “cucina” ordinaria dell’ufficio grafico. Le bandiere – la rossa accostata al tricolore, così come la stella che fa riferimento al simbolo della Repubblica Italiana – erano sul campo, inizialmente giallo, a riassumere la teoria togliattiana della “via nazionale al socialismo”. Albe Steiner, tra i più straordinari grafici del ‘900, lamentava in verità un eccesso di “roba” dentro quel cerchio: «… due aste, una falce, un martello, una stella, due bandiere, tre lettere, troppe cose». Resta però che il simbolo-contrassegno del Partito comunista italiano, nella sua evidenza, fa spesso da sfondo anche a molte pagine della nostra cinematografia, sia “civile” sia di intrattenimento, da Delitto d’amore di Luigi Comencini a Franco Franchi “deputato” comunista contrapposto al democristiano Ingrassia. Fino a Mimì metallurgico ferito nell’onore della Wertmuller.
Fabrizio Rondolino, con Il nostro Pci 1921-1991 Un racconto per immagini (Rizzoli) ha realizzato un lavoro straordinario di recupero (e ricostruzione) filologico-storiografico e, va da sé, di scavo iconografico, restituendo nei dettagli cronologici la traccia, la scia, la bava di lumaca visiva del partito che aveva come motto: “Veniamo da lontano, andiamo lontano”. Dalla fondazione, a Livorno, il 21 gennaio del 1921, agli ultimi suoi sussulti dei primissimi anni Novanta, tra il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Urss. Il libro accompagna così la ricorrenza tonda dell’imminente centenario. Quel “lontano”, indicava sostanzialmente anche la Russia sovietica, il paese “guida” rispetto al quale il Pci mostrerà sovente una eticamente inaccettabile subalternità.
Nei sotterranei della storica direzione di via delle Botteghe Oscure, a Roma, in una sorta di Fort Knox della memoria e della storia perfino burocratica dell’intera organizzazione, dimoravano, sistemati nei faldoni, gli archivi, i verbali d’ogni segreteria, direzione, comitato centrale e “ufficio politico”. In una stanza attigua trovava posto invece l’archivio fotografico e l’insieme della produzione grafica, frutto del lavoro sistematico di “stampa e propaganda”, agit-prop, si sarebbe anche detto con confidenzialità majakovskiana. Sfogliando il volume di Fabrizio R., c’è subito modo di veder riappare il tesoretto raccolto un tempo in quegli scaffali segreti. Le cui chiavi erano affidate a Susanna Loi, allora curatrice dell’archivio, figlia di Antonio Loi, comandante partigiano, liberatore di Genova.
Tra i nostri primi ricordi: un manifesto dei giorni del referendum contro l’abrogazione della legge del divorzio, 1974: “Le donne di casa Cervi votano no”. Subito accanto gli adesivi disegnati da Gal, al secolo Gino Galli, su tutti: “Fai rabbia a Lyndon”, ossia Johnson, presidente Usa, durante la guerra del Vietnam. O ancora l’astio verso i socialdemocratici: “SoCIAlismo” c’era modo di leggere nel contrassegno che un figuro tutto nero mostra sotto l’impermeabile da spia. Fra molto altro, va detto, la propaganda del Pci provò perfino a utilizzare i fotoromanzi: la sezione era il luogo nel quale sciogliere infine ogni dubbio, ogni conflitto, il segretario di circolo, a suo modo, occupava il ruolo altrove affidato al parroco. Quanto a l’Unità, era da Togliatti concepita come Il Corriere della Sera della classe operaia, accanto a Vie Nuove, il rotocalco, così come Il Pioniere con i racconti di Gianni Rodari destinati alla prole dei “compagni militanti”.
Singolare, se non incredibile, fare caso adesso – ossia in ciò che Pasolini chiama la Dopostoria – all’attenzione cerimoniale che il Pci mostrava tra il 1967, cinquant’anni dalla rivoluzione d’ottobre, e il 1970, centenario della sua nascita, alla figura di Lenin: in piedi sul planisfero terrestre, troneggiante, accompagnato da un distico: “Un terzo del mondo appartiene al socialismo”, con Cuba segnata in rosso, minuscola, “spina nel fianco” dell’“Imperialismo yankee”, un linguaggio assertivo mostrato con orgoglio, oggi risibile.
Passano gli anni, giunge, ahimè, il 17° congresso. Per l’occasione il grafico Bruno Magno, futuro creatore della “Quercia” del succedaneo Pds di Achille Occhetto, dovrà trovare un espediente visivo affinché quel numero assai poco apotropaico figuri innocuo sui manifesti. Alla fine, il 7 assumerà la parvenza di una minuscola bandiera rossa. Quanto invece al logo del congresso successivo, il 18°, verrà accusato d’avere una forma decisamente fallica.
Il tempo farà in modo che l’impianto iconografico generale rinunci all’asserzione ideologica, le tessere degli anni Ottanta sono disegnate infatti all’acquarello, i toni sempre più tenui, quasi come in una visione poetica degna di Paul Klee. Per la campagna elettorale del 1984 giungeranno, commissionati a un’agenzia esterna, due bambini nudi che si tengono per mano su uno sfondo monocromo giallo, “Un’Europa di pace e lavoro, per chi avrà vent’anni nel 2000”, lo slogan, anzi, il claim. Ricordo con i miei occhi, durante la Biennale d’arte di Venezia di quell’anno, Keith Haring ritoccare proprio quel manifesto con il suo pennarello fucsia fluorescente; peccato, non averlo tolto dal muro dei Magazzini del Sale, non averlo portato via, non averlo salvato.
Alle spalle degli ultimi sussulti, restano comunque a crepitare nella memoria, forti di una loro capacità totalizzante, le immagini dell’iniziale sicumera ideologica e militante, talvolta priva della capacità di relativizzare l’essere comunisti nell’insieme del cosmo: dal “Quaderno dell’attivista” alle medaglie di “diffusore” della stampa di partito, dal “santino” votivo in occasione della morte di Stalin che promette “gloria eterna all’Uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e il progresso dell’umanità”. Si noti la maiuscola. Poi i democristiani indicati come “i forchettoni”, e Guttuso, artista ufficiale, che raffigura il garibaldino trombettiere, e ancora la cagnolina “cosmonauta” Laika che dal cielo saluta un perplesso Amintore Fanfani: “Perdinci, in 40 anni sono arrivati alle stelle!”, e Berlinguer che nei giorni della battaglia in difesa della “scala mobile” mostra l’Unità ai “compagni” che sfilano in piazza dell’Esquilino: “Eccoci”, il titolo.
Nel 1985, il simbolo della Federazione giovanile comunista, la Fgci, mutuato da quello austero e decisamente militare del Komsomol sovietico, abbandona i colori tradizionali per trovare un arcobaleno proprio della nascente grafica destinata ai videoclip, alle copertine degli ellepì, la bandiera trova una sorta di festone gioioso, tale da assimilarla ai trend grafici che si accompagnano alla musica dei Talking Heads e i pattern del Memphis Design o di Mario Covertino. E questo che ai più potrà sembrare un semplice dettaglio di stile, porta con sé in realtà il tramonto di un mondo e delle sue forme originarie di comunicazione visiva e politica.