Quando una cosa è troppo bella per essere vera, probabilmente non è vera.
Pare calzare perfettamente questo detto anche alla modalità di lavoro da remoto, il celeberrimo smart working, che, sdoganato dalla Pandemia, ha di fatto portato milioni di lavoratori in tutto il mondo a concedersi giornate (o periodi) di lavoro da casa.
E così, dopo quasi quattro anni di sperimentazione generale, è notizia di questi giorni che le grandi aziende lo stanno abbandonando. I motivi? Il mantenimento delle relazioni e facilitare la collaborazione in team.
Ma anche ottimizzare gli investimenti immobiliari, esercitare un reale controllo sui lavoratori e stimolare la creatività (e produttività).
C’è poi la fronda femminista che sostiene poi ulteriori ragioni-contro legate alla “segregazione domestica” che porterebbe le donne lontane dai centri di potere.
Dunque. Mettiamo le cose per ordine.
Io tutte queste argomentazioni le capisco se a sostenerle è una persona formata al lavoro negli anni cinquanta, sessanta e settanta perché in quegli anni vigeva un mantra che in loop ripeteva che il lavoro era sacrificio e che andava idolatrato sopra ogni cosa. Sopra gli affetti, sopra la famiglia, sopra il proprio equilibrio psicofisico e svago. Una corsa disperata verso il profitto, verso l’ultimo che chiudeva l’ufficio, verso uno stile di vita devoto senza opinione diversa.
Ecco perché le opzioni erano nette e alternative: o in ufficio o a casa, o in carriera o remissivo, o madre o donna in carriera ed ecco perché sono nate brutture che hanno (di fatto) cacciato le donne dal mondo del lavoro, parcheggiato i giovani in eterne gavette e creato una nevrosi generale dove la prima diagnosi medica più diffusa su tutto il Pianeta, prima delle malattie cardiovascolari e dei tumori, è “stress”.
La quantità sopra la qualità senza contraddittorio.
Una corsa frenetica che ha esanimato il concetto del tempo libero, colpa dei fannulloni, vizio capitale di una generazione, quella dei millenians, che non vogliono più faticare ma che, per la prima volta, parlano di benessere. Di sostenibilità. Di ponderazione dei tempi tra casa e lavoro.
Sono stati offesi, denigrati, chiamati bamboccioni, esclusi dai centri di potere, cancellati dalle agende politiche e sociali e ora questo. Ridotto lo smart working, formula usufruita prevalentemente da loro.
Si è addotto al bisogno relazionale “in presenza” dimenticandosi che i giovani intrattengono la maggior parte delle loro relazioni comunemente a distanza. Agli investimenti immobiliari perché non si è capaci di rivedere (e dimezzare) i costi di un investimento in condivisione con altri. Di bisogno di controllo perché anche se la tiritera aziendale predicava obiettivi in realtà il bisogno viscerale di un datore resta sempre quello di verifica delle azioni di un sottoposto minuto per minuto. Si è parlato di creatività e produttività ignorando i dati mondiali di crescita dei fatturati, di donne relegate ai fornelli quando invece per la prima volta sono scappate dalla gabbia sottopagata dei part time (per lo più tra l’altro involontari).
Una frenata brusca da un futuro differente rispetto a quello che ha indottrinato per decenni le generazioni che oggi dirigono e che hanno la pretesa di decifrare l’oggi con gli strumenti di ieri.
Questo dietrofront mondiale non è lo step successivo alla sperimentazione dello smart working, ma un passo indietro. Un nostalgico e anacronistico tentativo di riportare le cose a com’erano prima. Quando “si lavorava meglio”.
Ignorando che i tempi, nostro malgrado, sono sempre in divenire e non si riavvolgono neppure con patetici, vecchi e stucchevoli tentativi di riviverli.
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