La vicenda di Giulia Cecchettin ha profondamente scosso il nostro paese, purtroppo non rappresentando un caso isolato nell’oscuro contesto della cronaca femminicida di questi anni.
Assistiamo a ciò che potrei definire un’alterità “alterata”, una metamorfosi degli affetti e dei sentimenti che rende sempre più fragili, inadeguati e insicuri vasti segmenti della società, soprattutto giovani e, tra di essi, uomini.
In questo contesto, riecheggiano le riflessioni di filosofi dell’alterità come Martin Buber e Emmanuel Levinàs, i cui pensieri assumono oggi una rilevanza particolare: Buber, nella sua filosofia del “Tu”, ci invita a considerare l’altro come un partner autentico nella relazione… non è un oggetto da utilizzare, ma un essere con cui entrare in un dialogo significativo. Levinas, d’altro canto, sottolinea l’importanza dell’Altro come una presenza etica che ci chiama alla responsabilità. L’Altro non è un’entità astratta, ma una persona con volto e dignità propria. Nel contesto dei femminicidi, il mancato riconoscimento di questa dignità porta ad una grave mancanza di responsabilità sociale e individuale.
Abbiamo illusoriamente cercato di eludere l’argomento, erroneamente declinando alle differenze “geo-sociali”, pensando alla condizione femminile in paesi non occidentali come il Pakistan o l’Iran, dove persistono modelli di arretratezza e prepotenza sulle donne. Tuttavia, senza bisogno di girare il mondo, ci troviamo di fronte a un vuoto educativo proprio nelle nostre case, nelle profondità delle società che continuiamo a definire democratiche e libere.
Parlare di alterità alterata e malata significa assistere a un regresso nella nostra capacità relazionale di guardarsi negli occhi, in un legame che dovrebbe contemplare l’altro/a come colui e colei di fronte a noi, creando un’Alleanza di corpi e cuori per vivere insieme. Nel simbolismo dei testi sapienziali antichi, quella “costola” potrebbe essere tradotta come il “costato” nel senso che la dualità uomo-donna si esalta nell’essere l’unione perfetta di due metà di un cuore, la metà dell’io unita alla metà del tu completatisi reciprocamente. Il mito biblico di Genesi, preso nel suo significato profondo, dice all’uomo di tutti i tempi che la donna è carne della sua carne e osso delle sue ossa ovvero che noi maschi non esistiamo senza il femminile, senza di loro rischieremo di abitare il “giardino” nella tristezza e miseria della solitudine, senza la luce del loro volto che ci sta di fronte e ci è necessaria per vivere in armonia. Senza questa relazione di amore complementare, l’esistere – citando Sartre – sarebbe un inferno, una landa desolante.
Non dobbiamo dimenticare poi che l’alterità autentica non implica una fusione in un noi indistinto capace di annullare uno a discapito dell’altro, ma impegna al rispetto assoluto dell’irripetibilità dell’altro/a, prendendosene cura. Capiamo quindi quanto sia enorme il piano culturale ed educativo della questione.
I percorsi educativi volti alla cura e al rispetto dell’alterità sono purtroppo trascurati, mentre si allarga il vuoto di significato nelle relazioni basate sul possesso ossessivo, sul controllo asfissiante e sullo scarico di frustrazioni e insicurezze, spesso a danno delle donne. La violenza, sia verbale che fisica, e la limitazione delle libertà sono intollerabili. Dobbiamo contrastare con tutte le energie educative possibili l’idea distorta dell’amore come possesso, radicata drammaticamente anche nelle nuove generazioni di uomini, per cui le donne sono vite manipolabili e plasmabili, la cui identità e progetti devono soccombere nelle mani degli uomini.
Sosteniamo con forza ogni azione educativa e sociale che promuova relazioni costruite sul rispetto dell’altro, senza alterarlo a proprio piacimento. L’altro, come suggerisce l’etimologia latina (alter) è sempre diverso da me, non come un ostacolo da superare o la controparte del mio ego ma come l’opportunità per cui io sto bene se il bene dell’altra diventa la mia unica ragione d’essere.
Gridiamolo da tutte le cattedre!
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