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Da Pechino a Kiev: il rapporto tra sport e geopolitica secondo Postiglione

Giornalista, comunicatore, fondatore di Velocitamedia.it
Da Pechino a Kiev: il rapporto tra sport e geopolitica secondo Postiglione

“L’attacco avrà inizio quando termineranno le Olimpiadi invernali di Pechino”.

Una frase che abbiamo sentito diverse volte, nelle concitatissime settimane che vedono un fortissimo riverbero della Guerra Fredda, un pericolosissimo spostamento all’indietro delle lancette della Storia. Ma perché una guerra, nella sua innata follia, dovrebbe attendere un evento sportivo, seppur globale? Che nesso può mai esserci tra sport e posizioni dominanti nello scacchiere internazionale?

Ne ho parlato con Alessio Postiglione, giornalista professionista, esperto di comunicazione, componente del progetto Linea Amica di Formez PA, docente in LUISS e SIOI, direttore del Master in Communications della Rome Business School e autore di “Calcio e Geopolitica” insieme con Marcìs Pallarès-Domènech e Valerio Mancini. “Calcio e Geopolitica” (Edizioni Il Mondo Nuovo) parla del legame tra lo sport più popolare al mondo e le relazioni internazionali e la politica mondiale. Un ruolo che dal calcio si può allargare, a questo punto, a tutto l’ambito sportivo.

Le Olimpiadi invernali di Pechino portano chiaramente alla ribalta il rapporto tra sport e geopolitica. In un momento in cui soffiano gelidi venti di guerra tra Russia e Ucraina, Lavrov è stato tra i pochi ministri degli Esteri a presenziare alla cerimonia di inaugurazione. Quanto lo sport può essere influente nelle delicatissime dinamiche che caratterizzano l’ambito geopolitico?

Lo sport è oggi uno strumento di soft power fondamentale, attraverso il quale Stati o altri poteri transnazionali affermano la propria proiezione geopolitica. Nel nostro, “Calcio & geopolitica. Come e perché i paesi e le potenze usano il calcio per i loro interessi geopolitici” (Edizioni Mondo Nuovo), indaghiamo il ruolo precipuo del calcio, ma è indubbio che anche le Olimpiadi, partendo da quelle antiche, abbiano sempre svolto questo ruolo. Nell’antica Grecia, infatti, duranti i giochi, le guerre erano sospese. Da questo punto di vista, le Olimpiadi di Pechino fotografano un momento particolare della geopolitica attuale, caratterizzata da una contrapposizione fortissima fra USA e Cina, la “trappola di Tucidide”, come la chiama l’esperto Graham Allison, per la quale Pechino e Washington sono destinate alla guerra guerreggiata. La novità è che, con Biden, gli USA hanno ripreso a contrastare fortemente la Russia, dopo la parentesi di appeasement trumpiana. Un “classico”, considerando che, per un padre della geopolitica come Halford John Mackinder, gli USA devono strutturalmente contrapporsi a Mosca, nella logica potenze marittime euro atlantiche Vs fortezza tellurica euroasiatica. La novità è che la strategia americana sta spingendo Mosca fra le braccia di Pechino. Mentre ai tempi dell’Unione Sovietica, Pechino era il satellite, oggi è Mosca a essere junior partner di Pechino. Ed ecco che gli USA vogliono boicottare le Olimpiadi di Pechino, vetrina del miracolo cinese, a cui partecipa invece Mosca. Nulla di nuovo sotto il sole, considerando che gli americani già boicottarono le Olimpiadi di Mosca dell’80 e i russi quelle di Los Angeles di quattro anni dopo. Di boicottaggi olimpici ce ne sono stati anche altri, su scala minore: la Cina non partecipò ai Giochi di Melbourne nel 1956, di Tokyo nel 1964 e di Mosca nel 1980. Lo stesso Hitler, d’altronde, sfruttò le Olimpiadi di Berlino del ‘36 per mostrare al mondo la potenza di una rinata Germania. Ironia della sorte. Hitler proibì agli ebrei tedeschi di partecipare ai Giochi e fu costretto a premiare l’afroamericano Jesse Owens.

Nel tuo libro parli dell’influenza del calcio in questa sfera. Specificamente, che ruolo può giocare lo sport più popolare al mondo nell’alterazione o nella definizione dei rapporti tra Stati se non, addirittura, tra blocchi contrapposti?

Il calcio non è solo uno sport, ma un vero e proprio strumento di soft power da parte di Stati e gruppi di interesse. Uno strumento geopolitico, utilizzato dalle potenze economiche e politiche, ed esso stesso un attore geopolitico globale: la Fifa ha più Stati-membri delle Nazioni Unite e il potere di assegnare un Campionato del Mondo incide sul destino di quel territorio. Quando le potenze economiche dettano le proprie condizioni agli Stati e alla politica, il calcio, essendo un grande business, domina il mondo. Un potere “liquido” e transnazionale che si proietta oltre gli stessi Stati-nazione, sempre più consumati dalla globalizzazione. In tempi in cui trovare pochi milioni per potenziare la scuola o la sanità è sempre più difficile, l’economia del calcio surclassa quella di molti Stati sovrani. Solo il calcio europeo vanta un giro d’affari di 28,4 miliardi di euro. I “big five”, i campionati europei principali – in ordine di grandezza: quello inglese, tedesco, spagnolo, italiano e francese -, hanno prodotto un fatturato record di € 15,6 miliardi nel 2017/18, con un aumento del 6% rispetto all’anno precedente. Il calcio muove interessi, fa battere i cuori: è più diffuso delle principali religioni monoteistiche e della democrazia liberale. I telespettatori complessivi degli ultimi Mondiali sono stati 3,572 miliardi, più della metà della popolazione mondiale di età pari o superiore a quattro anni. Ecco perché anche potenze non tradizionalmente calcistiche, come Cina e USA, giocano a calcio e puntano a utilizzarlo in chiave geopolitica.

Dal punto di vista finanziario, il calcio è un paziente dalla situazione generale non particolarmente florida. Questo può avere ripercussioni sulle sue potenzialità e sulle sue capacità di essere un “fattore” nelle relazioni internazionali?

In un mondo multipolare, attraverso il calcio, possiamo leggere non solo la contrapposizione Pechino Washington, ma anche il ruolo dell’Islam salafita o degli Stati del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati, contro l’Islam politico della Fratellanza Musulmana, rappresentato dal Qatar. Gli oligarchi russi e il capitalismo renano del Bayern Monaco si contrappongono al calcio finanziarizzato inglese. Ogni player gioca con il suo stile. Dai padroncini del vapore del calcio italiano, alla proprietà diffusa del Barcellona, ai grandi capitali pubblici della Cina, il calcio rispecchia diversi modelli economici. Ma la crisi finanziaria non mi spaventa. Il calcio è un investimento politico. La benevolenza dell’Italia a spalmare i debiti delle squadre di calcio dimostra che, su questo campo, non si è mai giocato con l’austerità. Il calcio è essenzialmente keynesiano.

Secondo te, l’operazione della Superlega (poi naufragata) messa in piedi dai club più potenti d’Europa per andare oltre la Champions, era ispirata anche a ragioni e criteri di tipo geopolitico o questi ne sarebbero stati un effetto?

Geopolitica ed economia, senza dubbio. I grandi club, cioè le grandi società transnazionali – consideriamo che Inter e Milan hanno più tifosi in Cina che a Milano – vogliono giocare una sorta di Circus della Formula 1, un grande campionato itinerante, dove ci siano tutti big match, e tanti saluti alla Spal e al Parma. Ma mentre il grande capitale spinge in questa direzione, esiste e resiste un calcio romantico fatto di tifosi e non di consumatori che ne celebra la liturgia, aliena alle dinamiche economiche. È una battaglia che potrebbero anche vincere i tifosi. È lo scontro finale: quello fra calcio come rito e fede, legato al campanile e al territorio – alla sovranità statuale westfaliana, potremmo chiosare – contro il calcio come commodity, apolide, liquido e transnazionale. Il primo, rito della working class – gli ultrà, il secondo consumo di élite, appannaggio del tifoso televisivo globalizzato, che segue il match sui tablet, nel suo boutique hotel ad Abu Dhabi.

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