Sul femminicidio di Martina Carbonaro di Afragola, in provincia di Napoli, si è detto tanto e ieri i funerali, con l’omelia del Cardinale officiante, ha sugellato “basta, abbiamo fallito” quale monito per tutta la comunità.
Si è detto il canonico “era un bravo ragazzo”, si è parlato del “raptus di gelosia”, delle colpe di lei per essere stata ammiccante su Tik Tok e le responsabilità dei rispettivi genitori che a questa relazione, fra una quattordicenne e un diciannovenne, non si opponevano. Poi ovviamente c’è chi non ha perso occasione per rinnegare il patriarcato, perché l’omicida era troppo giovane, e chi ha accusato di protagonismo la madre di Martina che sui social si è messa a preparare il panino preferito della figlia.
E’ incredibile il circo mediatico che si attiva subito dopo questi casi di cronaca dove tutti hanno qualcosa da dire autoassolvendosi ed estraniandosi da un circuito malato di parole rumorose e sovrascritte.
E non dico che qualcosa, nel mucchio, non sia adeguato, dico che si crea un circo. Un caos scomposto. Un finto interessamento generale e un ipocrita sdegno sociale di una comunità, la nostra, che blatera maturità ma professa disinteresse quotidiano verso i suoi ragazzi. Dalla politica (quali azioni sono rivolte ai giovani?) alla scuola (vogliamo parlare di quanto si è abbassata la qualità scolastica?), dallo sport (quali spazi sono dedicati ai ragazzi?) ai diritti (quali attenzioni e opportunità?) dei giovani che continuano a scappare dal nostro Paese (l’ultima stima dell’Istat ne attesta a 200.000 l’anno) nel disinteresse generale.
D’altronde la maggioranza delle nostre città, province, regioni è composta da over cinquantenni e i ragazzi ne fanno da contorno. Mai al centro.
Martina si godeva come poteva la sua giovinezza, in compagnia dei social, di una terra che offre poche opportunità, replicando esempi e modelli di adulti ammalati anch’essi dai media. Così come il suo omicida, altra conferma maschile dell’incapacità di reggere un rifiuto in tempi dove tutto è dovuto e preteso e che del sacrificio, inteso come attesa-abnegazione e capacità anche di saper rinunciare, nessuno ne vuole più sentir parlare.
Si piangono stipendi striminziti ma che non manchi mai il cellulare all’ultima moda o la felpa firmata. E se un tanto vale per gli adulti, figuriamoci per le loro piccole mostruose repliche (mostruose perché spesso accentuano i vizi dei genitori).
Stupendo quanto accaduto in Spagna lo scorso mese: un blackout generale di molte ore ha impedito la quotidiana frenesia tecnologica e locale, la velocità del muoversi, il bisogno della luce naturale. Di colpo la gente si è ritrovata nel medioevo della tecnica: a rincasare col buio, a camminare, a guardarsi negli occhi, a parlare vis a vis, a giocare per le strade, a dare regole ai figli non più comodamente raggiungibili. Un meraviglioso scorrere della vita reale che impone, ancora una volta, un quesito essenziale: la tecnologia è finalizzata al suo indipendente sviluppo o va riportata al servizio della qualità umana?
Come, ad esempio, ad un limite giornaliero dopo il quale i genitori tornino ad educare e conoscere i propri figli e loro a sentirsi così importanti e centrali nella vita delle proprie famiglie e comunità, da amare la propria e altrui vita sopra ogni cosa, innamorati dei propri iperbolici sogni per il futuro e senza che un rifiuto li possa scalfire.
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