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Giappone: sesso, app e tempo per nuovi nati

Avvocato, Giornalista Pubblicista e Presidente "Consiglio per la Parità di Genere"
Giappone: sesso, app e tempo per nuovi nati

L’ultimo Paese in ordine di tempo a porsi soluzioni anti-denatalità è il Giappone che ha deciso, a partire dal 2025, di introdurre la settimana lavorativa corta (e  non “compressa” come in Italia) di quattro giorni per tutti i suoi 160 mila dipendenti del governo metropolitano (e non solo per i Ministeriali come da noi).

Prima di loro è stata la Francia a sperimentare strade volte ad incentivare le nascite con, ad esempio, la totale gratuità del congelamento degli ovociti per le donne tra i 29 e i 37 anni d’età (e non solo quelle affette da patologie invalidanti) certa che, non potendo invertire il procrastinarsi delle maternità, almeno questo trend non limiti il numero dei nati. Vi è poi la fredda Russia che, a suo modo se non altro, ha proposto sanzioni per chi diffonde contenuti o messaggi che incoraggiano a non avere figli (i famosi movimenti #childfree tanto in voga e redditivi in Occidente). E poi, uno su tutti, il Santo Padre, nella sua continua moral suasion contro l’umanizzazione degli animali domestici sostitutivi di figli in carne e ossa.

In Oriente è stata la Governatrice Giapponese ad annunciarne:

“Rivedremo gli stili di lavoro con flessibilità, assicurando che nessuno debba rinunciare alla propria carriera a causa di eventi personali come il parto o la cura dei figli. Oltre al weekend di tre giorni, chi ha figli piccoli potrà scegliere giornate lavorative più brevi, accettando una riduzione dello stipendio”.

I numeri: il Giappone è attraversato da una profonda crisi della natalità, con appena 1,22 figli per donna (in Italia 1.20), ben al di sotto del livello di sostituzione di 2.1. Il dato è in calo precipitoso da molti anni e continua a raggiungere minimi storici. In parallelo, ovviamente, la più alta percentuale di cittadini anziani.

Le cause sono sempre le stesse, in Asia come in Occidente: maternità tardive, alti costi della vita, disparità salariali di genere, infertilità di coppia, spese elevate per i servizi di cura dei bambini.

Per invertire questa tendenza (che travolge l’economia prima ancora che il welfare), le Autorità Giapponesi hanno quindi pensato di rendere più sostenibile l’impegno lavorativo. Ma anche migliorare i servizi per l’infanzia, potenziare iniziative per la crioconservazione degli ovociti e persino app di incontri mirate.

Scelte coraggiose e forse impopolari che mostrano il livello di disperazione avverso un problema mondiale verso cui la maggior parte degli Stati, tra cui il nostro, fa ancora orecchie da mercante archiviando la filiazione come affare privato e individuale. E soprattutto decretando la denatalità come dato incontrovertibile. Una sorta di collisione violentissima e inevitabile.

Ma queste proposte Giapponesi funzioneranno?

Ricordo bene che durante le chiusure forzate in periodo Pandemico, tutti i Salomoni predissero che negli anni successivi ci sarebbe stato un “baby boom” conseguente al fatto che le coppie, costrette a stare sempre insieme, si sarebbero dedicate a maratone sessuali procreatorie. Le cose non andarono così, anzi: mai tanti pochi nati dal Covid in poi.

Si comprese infatti che l’angoscia verso il virus che mieteva vittime, la paura della perdita del lavoro (di attività rimaste bloccate per mesi) e l’eccesso di vita domestica stavano invero ammazzando la libido e, quel che peggio, ogni desiderio di procreare in un mondo maggiormente arrischiato.

Da qui considerare la settimana corta giapponese, come hanno titolato molti media, “più tempo per il sesso” pare del tutto scentrata. Sembra invece rispondente ad una ricerca di un maggior equilibrio casa-lavoro che certo non strozza, come sin qui avvenuto contro la salute psico-fisica dei lavoratori, i desideri di costruzione e crescita familiari.

Ad oggi lo studio più dettagliato sul merito è quello realizzato nel 2022 dall’Università di Cambridge su 61 aziende Inglesi che hanno sperimentato questa politica della settimana corta e altre correlate flessibilità.

Al termine della sperimentazione, il 71% dei lavoratori ha ammesso sintomi di burnout in calo, il 39% meno stress, i giorni di malattia sono diminuiti del 65% e le dimissioni del 57% (e tutto questo senza un calo nei ricavi delle aziende coinvolte).

Comunque la si pensi, bene ha fatto il Giappone a sperimentare soluzioni e bene anche tutti gli altri Stati che ne hanno anticipato o che ne seguiranno rispetto al peccato comune, e purtroppo ammorbante l’intera società, dell’indifferenza.

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