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Il Ponte sullo Stretto? Un’idea democratica che fa paura a chi non vuole decidere

Docente, Giornalista, Scrittore e Saggista
Ponte sullo Stretto

Il Ponte sullo Stretto è tornato, e con lui tutte le contraddizioni italiane. Da una parte, un Parlamento che lo ha approvato più volte e un’Europa che lo considera parte integrante del Corridoio Scandinavo-Mediterraneo, cioè una delle dorsali strategiche della mobilità continentale. Dall’altra, i soliti cori di scettici, ambientalisti di professione e nostalgici del “meglio non fare nulla, così non sbagliamo”. La verità, come sempre, è più semplice e più dura: l’insularità costa alla Sicilia 6,5 miliardi l’anno. Sei miliardi buttati in mancata competitività, in ritardi cronici, in collegamenti inefficaci. È un peso che pagano le imprese, i cittadini, i giovani costretti ad andarsene. E che, indirettamente, paga anche l’intero Paese.

Eppure, ogni volta che si nomina il Ponte, il dibattito si riduce a caricatura: o utopia faraonica, o speculazione edilizia. Mai che lo si discuta per quello che è: un’infrastruttura strategica, figlia di una decisione democratica. Perché è questo che sfugge: il Ponte non è un capriccio ingegneristico, ma una scelta politica approvata dalle istituzioni rappresentative. Gli scali di Catania, Comiso, Lamezia e Reggio Calabria diventerebbero un unico hub integrato, con una potenza economica che oggi il Sud neanche immagina. La Sicilia smetterebbe di essere un arcipelago economico staccato dall’Italia, e il Paese potrebbe finalmente giocarsi un ruolo vero nel Mediterraneo.

Certo, restano i problemi: strade, ferrovie, trasporti locali che vanno modernizzati. Ma usare questo argomento per dire “non facciamo il Ponte” significa condannare il Mezzogiorno all’eterno immobilismo. È lo stesso schema che ha bloccato per decenni qualunque grande opera in Italia: prima bisogna fare altro. Tradotto: non bisogna fare niente. Il Ponte divide perché costringe a scegliere. E scegliere, in questo Paese, fa sempre paura.

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