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Il sangue della vendetta

Avvocato e scrittore
Il sangue della vendetta

Non basterebbe una vita per raccontare i fiumi di scienza e cultura giuridica che danno un fondamento al principio di non colpevolezza (o presunzione di innocenza) nei quali si sono bagnati tutti i più grandi pensatori della storia moderna che si sono cimentati nelle ragioni dell’etica, della morale e del diritto.

Potremmo spingerci addirittura a Platone e al racconto, narrato nella sua “Apologia a Socrate”, delle tre difese che il filosofo ateniese fece a sé stesso in altrettanti processi a lui mossi (abbastanza campati in aria) e che si conclusero con la sua condanna a morte. Era il 399 a.C. ma già da allora Socrate teorizzava che una persona è da considerarsi innocente sino alla condanna definitiva, che le prove devono essere addotte da chi accusa e non da chi si difende e  che, in mancanza di prove, una persona non può essere condannata e deve essere considerata innocente.

Quanta fatica e quanto sudore sono costati a noi, studenti di giurisprudenza, fustigati dal severo professor Mercadante, quegli studi matti e disperatissimi nella filosofia del diritto, tutti protesi, a partire da Socrate, passando per Hobbes, Locke, Poitier, Rousseau, per finire al mio concittadino Capograssi, nel cercare di capire che uno Stato, nell’adottare tali principi sceglie, scientemente e consapevolmente, di preferire il rischio che un colpevole vada in giro piuttosto che un innocente sieda, anche per un solo giorno, in carcere.

Poi d’un tratto scopriamo, alla tenera età di 65 anni, che un tizio (uno che se non avesse avuto l’astuzia di brandire la sete di sangue che alberga, ahimé, in tutti i popoli dai tempi di Barabba ad oggi, facendo del populismo giustizialista il suo vessillo e il carro trionfale della sua notorietà, sarebbe un ordinario quisque de populo,) ha di fatto stracciato e buttato nel cestino secoli di sapere e, per quanto ci riguarda, anni di esperienza nelle aule dei tribunali.

“Non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente finisce in carcere” avrebbe sentenziato l’uomo che ha per cognome la prima fase del parto.

La vicenda è di diverso tempo fa, ma torna di prepotente attualità nella imminenza del referendum del prossimo 12 giugno.

Di primo acchito la frase disorienta e fa stropicciare gli occhi. Ma subito dopo, a ben ragionarci sopra, ci si rende conto che non è il delirio di un folle e neanche lo sproloquio del più classico degli ignoranti che tuttoleggia a destra e manca. No. Una frase del genere, nel pieno della sua aberrante dimensione che lacera dal diritto, all’etica, alla morale, non è altro che la sintesi ideologica di un modo di pensare che non è nuovo, purtroppo, dalle parti del bel paese.

Fa il paio con la pesca a strascico che certi pubblici ministeri, anche abbastanza mitizzati, fanno quando ordinano retate di tre, quattrocento persone, perché tanto una “decina che sono davvero colpevoli in mezzo ci capiteranno sicuro”.

Fa il paio con il “non poteva non sapere” che fece da teorema per la mattanza di mani pulite.

Fa il paio con il “concorso esterno in associazione mafiosa” che fece mettere sotto accusa chi i mafiosi li incontrava senza saperlo in mezzo a migliaia di persone presenti a un comizio o a una conferenza.

Insomma fa il paio con chi pensa che la giustizia sia un rituale sommario e non la strenua ricerca della verità perché l’importante è avere “un colpevole da linciare” e non “il colpevole” da condannare.

A ben pensare roba antica; in fondo fu la storia di Gesù.

E non serve rimembrare, ripescandole dai cassetti della nostra memoria universitaria, che la civiltà giuridica, quella stessa che da Socrate in poi ha tessuto le difficoltose trame dell’etica di Stato, recita che la condanna non è una vendetta ma ha il fine di sottoporre il colpevole alla fase della rieducazione e del recupero al vivere civile.

Quella brutta frase è la sintesi di un modo di pensare, e merita una risposta. Che non può essere sommaria e rozza come loro sono stati, o meglio come lui è stato. La risposta vera, civile, riformista è discuterne, parlarne, convincere le persone che certi principi non sono negoziabili.

Insegnare che il garantismo è un valore e non può essere bollato con il marchio della difesa dell’impunità. Chi è garantista non è complice di un delinquente. Non si tratta di aiutare un colpevole a sfuggire alla giustizia. Il fine, nobile, è di esigere che per condannare una persona bisogna rispettare tutte, ma proprio tutte, le regole che fanno funzionare le indagini e i processi, senza trucchi, senza scorciatoie, senza furbate e soprattutto cercando il colpevole, quello vero, e non uno qualunque che faccia da colpevole. Si tratta di far comprendere alle persone che la giustizia non è un carnefice che fa scorrere il sangue della vendetta per assetare il popolo inferocito, ma un sistema che deve garantire la convivenza tra i cittadini. Punendo chi viola tali regole di convivenza ma cercando di recuperarlo alla capacità di tornare a viverla nuovamente.

Certo, poi viene il dubbio che con alcuni personaggi tale sforzo potrebbe risultare drammaticamente vano e che magari risparmiarselo non sarebbe sbagliato.

E allora diciamocelo francamente, se così fosse, nel frattempo e nell’immediato, non sarebbe sbagliato accodarsi alla signora Gaia Tortora. Un bel “ma chi ca…o me lo fa fa…”  sarebbe orfano se non venisse accoppiato a quel “Travà…ma vaff….lo va…”, pronunciato all’epoca dalla figlia di Enzo Tortora.

Quantomeno sarebbe liberatorio.

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