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In Europa tifiamo la Nazionale e i Maneskin. C’è una parola che però non riusciamo a pronunciare: Patria.

Avvocato e comunicatore
© Chiara Strusi
© Chiara Strusi

L’edizione di Eurovision di quest’anno è stata illuminante: in una sola notte si è rivelata tutta l’essenza dell’italianità e dell’anti-italianità. L’Italia vince al fotofinish con il televoto dopo 31 anni dall’ultima volta, quella di “un italiano vero”: Toto Cutugno. Il tempo di esultare e Paris Match diffonde uno spezzone della serata nel quale si intravede il leader dei Maneskin accasciato sul tavolo e lo accusa di sniffare. Festa mezza rovinata: il front-man si sottopone ad un controllo anti-droga che da esito negativo ma altri magazine francesi continuano a gettare ombre sulla validità dei test. Si sprecano post e parallelismi su Zidane, Materazzi e Grosso.

La trasformazione di noi italiani in Avengers è istantanea: come sempre in questi casi, nel giro di qualche ora, diventiamo una sorta di Hulk dell’italianità. Riaffiora quel sentimento di difesa della nazione che puntualmente noi cisalpini mettiamo in campo tutte le volte che qualcuno ci attacca mediaticamente.

Perché noi italiani siamo così. Siamo un popolo contemporaneamente figlio e padre della contaminazione. Contaminazione che per noi è ricchezza ma anche Sindrome di Stoccolma. Siamo un popolo geneticamente scettico che, puntualmente ogni anno, borbotta il 17 marzo, il 25 aprile, il 2 giugno senza buoni motivi. Siamo gli inventori del melodramma, forse siamo il melodramma. Come dice Liga, riferendosi all’Italia: “la guadiamo distratti come fosse una moglie, come un gioco in soffitta che ci ha tolto le voglie”. Ma non quando siamo all’estero o in una competizione.

Dentro casa volano gli stracci ma che nessuno si permetta di parlare male dell’Italia. Per alcuni (purtroppo) l’italianità non consiste in un’identità inscalfibile, in un sentimento maturo e imperturbabile; assomiglia più a quell’istinto che hanno i bambini nel difendere la madre quando qualche coetaneo la insulta. La realtà è che ancora oggi non tutti hanno accettato il patto che ci ha uniti: è vero che la nostra è una nazione relativamente giovane, che 170 anni sono per certi versi pochi, ma comunque sarebbe l’ora di fare un passo in avanti.

Il nocciolo della questione però non è neanche questo.

La radice del problema è che alcuni concetti appartengono all’immaginario collettivo fascista. “Prima gli italiani” è un’espressione che potrebbe scaldare l’anima se a pronunciarla fosse Pertini ma se a ripeterla sono leader contemporanei ecco dunque che determinate espressioni vengono quasi bannate. In Italia, se dici “Patria” con voce vibrante e sguardo fiero molti cominceranno a congetturare sulla tua presunta appartenenza politica a questo o quel partito, dimenticando invece che l’articolo 52 della Costituzione Italiana sancisce: “la difesa della patria è sacro dovere del cittadino”  mentre nell’articolo 59 con riferimento ai Senatori a vita si parla di “cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi meriti”. 

È vero dunque che alcuni termini caratterizzano appartenenze e storie politiche, ma sarebbe bello vivere in un Paese in cui tutti fossero liberi di pronunciare a cuor leggero le parole “Nazione” e “Patria” e in cui tutti si sentissero liberi di chiamarsi “compagni” rispettando l’autentico significato del termine.

Prima o poi, questo fuoco incrociato di stigmi concettuali andrà interrotto. Ben venga l’orgoglio italiano per la vittoria all’Eurovision e per i campionati europei; ben vengano le risposte per le rime a chi attacca simboli e/o beniamini contemporanei. La nostra priorità, come popolo, dovrebbe tuttavia consistere nel recuperare soprattutto la dimensione identitaria, ridelineando il perimetro dell’italianità.

Senza paura di scheletri nell’armadio, semplicemente: Patria.

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