Potremmo anche dire lobbisti e interpreti. Interpreti del sistema politico istituzionale italiano e dell’Unione Europea? Magari solo questo. Interpreti nel senso di traduttori invece, e di questo mi scuso profondamente con quelli veri che hanno studiato una vita e continuano a farlo per esercitare seriamente una professione davvero complessa.
Noi lobbisti purtroppo siamo, spesso, troppo spesso, costretti a fingerci tali.
La mia società di consulenza, Telos Analisi e Strategie, viene spesso ingaggiata da aziende o associazioni straniere, che non hanno un ufficio che si occupa di lobbying nella loro sede italiana, o non hanno proprio una sede italiana.
Il nostro lavoro diventa particolarmente sofisticato perché non solo dobbiamo comprendere bene il problema del nostro cliente e cercare di trovare una proposta di modifica normativa da rappresentare alle Istituzioni, ma dobbiamo spiegare all’azienda che ci ha ingaggiato come funziona il sistema istituzionale italiano, sia da un punto di vista procedurale che politico.
È una cosa che faccio con grande soddisfazione personale e professionale da moltissimi anni. Alcune cose sono cambiate nel tempo e altre no, anche nel rapporto con il cliente.
La prima cosa da fare digerire, ancora oggi, al cliente straniero è che non solo c’è bisogno di un rappresentante dell’azienda agli incontri con le Istituzioni, ma che almeno uno deve essere della loro sede italiana. E questa richiesta, anche se con qualche resistenza, passa.
Anche se proprio qualche giorno addietro, in pieno mese di agosto, abbiamo ricevuto un brief nel quale il punto centrale era questo: “Al consulente è chiesto di rappresentarci negli incontri con le istituzioni quando la presenza dell’azienda sarebbe inopportuna.” La mia risposta istintiva sarebbe stata “beh se la vostra presenza sarebbe inopportuna, lo sarebbe anche la nostra!”. Ho poi capito nel corso dell’incontro da remoto che molti dei nostri ‘colleghi’ in altri paesi europei lo avevano addirittura suggerito.
La seconda cosa è quasi impossibile da far comprendere ai clienti stranieri: l’incontro deve svolgersi in italiano, e se nessuno di loro lo parla, allora è necessaria la presenza di un interprete, in grado di evitare qualsiasi frainteso. Qui le motivazioni della loro resistenza sono le più disparate. Si comincia dalla totale incredulità sul fatto che in Italia le lingue le conoscono davvero in pochi. E in pochi sono in grado di reggere una conversazione piena di sfumature e di dettagli, spesso tecnici oltre che normativi. Nella mia esperienza, i politici di alto livello, anche se conoscono perfettamente l’inglese, in incontri importanti pretendono la presenza di un interprete. E magari sorprendono il nostro cliente nelle battute di saluto, sfoderando un’ottima conoscenza dell’inglese. Poi c’è la solita scusa della riservatezza, come se gli interpreti fossero delle gole profonde che vanno in giro a raccontare i loro segreti industriali. Che poi, detto tra noi, difficilmente vengono svelati, nemmeno a noi consulenti! Qui sospetto entri in gioco l’avarizia.
Quindi nella realtà dei fatti mi sono ritrovata a fare l’interprete, molto più spesso del dovuto.
Mi è anche capitato che, in un maldestro tentativo di essere cortesi, i rappresentanti delle istituzioni provino a dire qualcosa perlomeno in inglese, o nella lingua madre del nostro cliente, con risultati pericolosi (quei fischi per fiaschi che la presenza di un interprete avrebbe evitato di sicuro) o situazioni esilaranti.
Come quella volta che un direttore generale di peso, in un ministero di peso per far sentire a proprio agio un cliente francofono disse “Oui, bien sûr, je parle français et en vacances, je vais à la plage.” Indimenticabile l’espressione di sconcerto dipinta sul volto del nostro cliente che andò nel pallone più totale.
Ma anche dall’altra parte spesso non si brilla per conoscenza fluente delle lingue.
In una riunione davvero importante, un cliente che sosteneva di conoscere l’inglese se ne venne fuori con “terz partis”. E qui lo sconcerto fu istituzionale.
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