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Manipolazione, censura, fatti e commenti: Greta Cristini e l’informazione di guerra

Giornalista, comunicatore, fondatore di Velocitamedia.it
Manipolazione, censura, fatti e commenti: Greta Cristini e l’informazione di guerra

Il tarlo dell’antimafia sempre in testa e un percorso tutto giuridico: due lauree in Giurisprudenza (italiana e francese) alla Sorbona di Parigi, un Master di diritto americano nella Grande Mela. Da lì, un lavoro prestigioso come avvocato anticorruzione proprio a New York.

“Sì, facevo tutt’altro”, mi dice Greta Cristini, che da qualche anno ha cambiato percorso professionale. Greta oggi è un’analista geopolitica lanciatissima, collabora con Limes, una sorta di bussola del settore, e posa la sua penna e il suo pensiero su alcune tra le maggiori testate nazionali. Per immedesimarsi al meglio in ciò che voleva raccontare, ha scelto (come molti fanno ma come non tutti hanno fatto) di guardare dal vivo. Di parlare con le persone. Di osservare cose accadute, case bombardate e fatti successi. Ed è andata prima in Ucraina e poi, di recente, in Medio Oriente. La prima esperienza, un vero e proprio “battesimo del fuoco”, l’ha portata a scrivere “Geopolitica. Capire il mondo in guerra”, edito da Piemme e con la prefazione di Lucio Caracciolo. Un libro letto, presentato, discusso in molte parti d’Italia.

Tutto ciò, nonostante Greta si appresti a tagliare il traguardo dei trenta. Giovane, brillante, capace. E decisa. Una professionista che nel volo transoceanico ha trovato il suo perché e la sua strada. Se ne stanno accorgendo un po’ tutti, a partire dalla sua terra d’origine. Pochi giorni fa è stata premiata a Gabicce Mare come “Marchigiana dell’anno”, lei che è originaria del Montefeltro.

Greta, partirei proprio dal tuo libro, che mette insieme un approccio analitico e uno più giornalistico, da reporter. Cosa ti ha spinto a mettere su carta le tue esperienze?

Nel lavoro che facevo avevo maturato un po’ di stanchezza perché mi ero accorta che la legge, il diritto non mi dava le chiavi giuste per spiegarmi i conflitti di potere da cui traggo stimolo intellettuale. Così ho scoperto la bellezza della geopolitica, mi sono appassionata e ho scelto di coltivare questa passione. Quando è scoppiato il conflitto in Ucraina, ho deciso di andarci per avere contezza e consapevolezza pratica del conflitto stesso. Studiare le collettività, le comunità, è sempre più importante che ascoltare dichiarazioni di principio dei leader. Avevo cioè bisogno di respirarle per assorbirle, per capirle. Qualcosa che non si può fare da remoto, ma quando si parla di questioni umane emerge la necessità di esserci, di stare lì. Devi parlarci, devi viverli. In Israele e Palestina ho potuto fare qualcosa di diverso, perché in Cisgiordania ho coperto anche il fronte palestinese. Questo per me è stato fondamentale, perché in Ucraina ho coperto solo il lato ucraino (anche se non avrei avuto problemi a fare lo stesso col lato russo). Questa è stata la molla per dare spinta e credibilità al mio lavoro da analista.

In un contesto bellico, al giorno d’oggi la tendenza degli utenti è quella di fidarsi dei citizen journalists, dei blogger, dei giornalisti indipendenti. Che producono una mole impressionante di video, documenti, reportage, tra cui è anche complicato scegliere. Tu ti stai affermando soprattutto come una professionista che viaggia da sola in Ucraina e in Medio Oriente e racconta quello che vede. In che modo organizzi il tuo lavoro?

Il mio approccio ha a che fare con l’osservazione esterna della Storia che si sta facendo davanti ai miei occhi, restituendo al lettore come la storia e il conflitto vengono percepiti da un fronte e dall’altro. Non mi interessa convincere il lettore a pensarla in un certo modo, ma al contrario voglio trasmettere la complessità del conflitto spiegando i punti di vista delle parti in campo, sapendo quindi che c’è la verità di una parte e quella di un’altra. Sono poi sempre consapevole del bias cognitivo dovuto alla mia lente culturale e antropologica. Io sono italiana, mediterranea e questo è un limite nel mettersi nei panni dell’altro. Lo sforzo dell’analista quindi non è mai perfetto (e mai lo sarà), ma sta nel provare a togliermi di dosso i miei codici e provare per quanto possibile a indossare quelli delle persone che incontro, anche e soprattutto attraverso uno sforzo empatico. In Ucraina, in Israele e Palestina, i codici non sono quelli europei. L’idea è cercare di mettermi nei cuori e nelle teste di chi mi parla, senza giudizi morali o valorali. Se io occidentale dicessi dov’è la verità, tanto più nel bel mezzo di un conflitto in una terra di cui non sono parte sarebbe una totale mancanza di rispetto verso il lettore e una forma di arroganza rispetto ai veri protagonisti di quella storia. Ad esempio, nei territori della Cisgiordania do voce sia ai coloni israeliani che mi raccontano perché Dio li vuole lì sia ai civili palestinesi che mi raccontano di un’oppressione che dura da 75 anni. Costruirsi un’opinione su cosa è giusto e cosa è sbagliato è compito di chi legge, non mio.

Inquinare le fonti, costruirle o depotenziarle a seconda dello scopo, vuol dire anche creare sacche più o meno grandi di opinioni basate su convinzioni errate. Che rischio c’è per i lettori di essere raggiunti da una informazione parziale/di parte, in un’epoca in cui censura e newsmaking si impegnano per impedire la costruzione di un’opinione pubblica consapevole?

Il rischio è enorme, e non mi pare ci sia grande interesse ad invertire la rotta. È un grande rischio perché lo vedo declinato nelle forme che dicevi, ma anche in altre forme: i social amplificano il raggiungimento e la semplificazione della notizia. Chi si informa soltanto su queste piattaforme sbaglia perché può più facilmente incappare nel fenomeno di cui parlavi, quello della manipolazione. I giornali seguono una linea editoriale, si decide come narrare un conflitto e si agisce e si scrive di conseguenza. La mia forza è che, sul campo, racconto esattamente quello che vedo. Oggi si è creata una sorta di partita tra giornali mainstream e bolle sui social: i primi sono diventati per lo più di opinione, mentre i social ti raccontano l’altra parte della verità, una sorta di contronarrazione.

Ormai da un decennio si è affermata la seconda direttrice della guerra non lineare, vale a dire la disinformazione attraverso i social (che però si applica a tutti gli ambiti), quindi la creazione di un’opinione pubblica favorevole alle proprie istanze attraverso la manipolazione delle notizie. Dovendo coprire gli avvenimenti di una guerra, può succedere che il giornalista stesso sia vittima di inganni comunicativi che rispondono a strategie militari. Quali sono le assicurazioni che un giornalista può fornire sul fatto che la sua informazione è scevra da condizionamenti esterni?

Accade continuamente. In tutti i conflitti. L’infowar – cioè la guerra di informazione: fake news e manipolazioni ma anche propaganda più spicciola – è un tipo di informazione che esiste e che c’è, sia in Ucraina che in Medio Oriente. Il racconto di guerra arriva oggigiorno dai freelance, soprattutto. Un giornalista ha sempre a che fare con la propaganda, e in una situazione polarizzata come una guerra, vengono fuori le pulsioni animalesche di tutti. Dal lato israeliano, ad esempio, ti dicono che è vero che si sta bombardando Gaza, ma che è necessario. Da quello palestinese ti dicono che l’Anp è al soldo di Netanyahu e la morte per martirio è l’unica via possibile. Il lavoro che io posso fare è accertarmi, attraverso un incrocio di fonti, che il dato sui morti di un bombardamento sia più o meno pari a quello comunicato ufficialmente. Però quando si parla di stati d’animo, di opinioni, che riguardino un fronte e l’altro, beh, questo è materiale dannatamente umano, incandescente. Bisogna trattarlo con grande rispetto, evitando di strumentalizzarlo per far passare una tesi a sfavore dell’altra.

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