E’ il 1962: l’Italia è nel pieno del suo boom economico. Nelle piccole province settentrionali è sufficiente star fermi per strada e le scarpe ti si sporcano di polvere d’oro. E tuttavia, quella cascata di ricchezza materiale suscita disagio e fatiche di vivere. In quest’ottica, Lucio Mastronardi scrive Il maestro di Vigevano (prima edizione Coralli Einaudi 1962), secondo volume della trilogia Gente di Vigevano. Piazza una mina sotto la piccola borghesia provinciale italiana dei primi Sessanta, e la fa brillare. Il boato sarà epocale.
Trasposto al cinema da Elio Petri e Alberto Sordi
Il romanzo – che uscì su iniziativa di Italo Calvino, e poi fu reso noto al grande pubblico da un film di Elio Petri con Alberto Sordi dell’anno dopo – è un capolavoro della letteratura italiana del Novecento. Non è un libro privo di difetti, ci arriveremo, ma resta un capolavoro perché l’autore fa, in poche pagine, una critica sociale dirompente che, unito al coevo La vita agra di Luciano Bianciardi, manda in frantumi il mosaico tutto latte e miele delle piccole città italiane del centro-nord.
Il nodo autobiografico incide
Il maestro di Vigevano è un romanzo in parte autobiografico, come spesso capita: l’autore era un maestro elementare a Vigevano, figlio di una maestra e di un ispettore scolastico antifascista, che dal 1923 venne costretto al pensionamento anticipato dal regime e il sistema scolastico del Duce poi si prese la sua vendetta sul figlio Lucio, pluri-bocciato e ostacolato in tutti i modi. Potrà diplomarsi all’Istituto magistrale solo a fascismo finito, nel 1949.
L’umanità raccontata nel romanzo è gretta e grigia.
Nella Vigevano di Mastronardi non si salva nessuno, è una carrellata di personaggi piccini e cattivi. L’autore riesce, con quattro pennellate, a rendere la pochezza, la meschinità, l’insulsaggine di almeno due classi sociali di una piccola provincia del Nord. Stigmatizza non solo la piccola borghesia artigiana, ovviamente ossessionata dal guadagno in lire e quindi frodataria del fisco già negli anni 50-60, ma anche quella dei maestri di scuola. Quelli di Mastronardi sono tutti travet con la puzza sotto al naso, che vivono la vita in funzione del proprio coefficiente stipendiale, del punteggio d’anzianità e che spiano con sospetto e invidia il resto del mondo, misurato squallidamente a colpi di mille lire. Non a caso, in un romanzo che potremmo definire anche “sulla scuola”, gli studenti rimangono quasi totalmente sullo sfondo. A questi “educatori” gli studenti non interessano. Sono un peso, una zavorra, cartine di tornasole da tirar fuori solo per far vedere all’ispettore quanto bravo è il maestro a tenersi lontano dal “libresco”, a fare “scuola attiva”, a dislocare i banchi nel modo non tradizionale.
“Sono un maestro elementare e ho famiglia.”
(***SPOILER***) Il protagonista è il maestro Antonio Mombelli. Un ometto privo di spina dorsale, misogino, con un assurdo complesso di superiorità rispetto ai colleghi, che disprezza ed è da loro ricambiato, e invidioso nei confronti della moglie. La moglie, Ada, vede nel marito una nullità, un finto intellettuale che guadagna in modo misero e non le può nemmeno comprare di tanto in tanto un regalo, motivo per cui lei se li fa regalare da altri uomini, con cui tradisce il marito da anni, del tutto priva di sensi di colpa.
Ada, il mostro.
Ada è uno dei personaggi più perfidi e crudeli della letteratura italiana, basti pensare che – in punto di morte – dice al marito che il figlio che alla coppia è morto era biologicamente suo, mentre quello rimasto vivo no, e la cosa, è semplicemente l’ultima menzogna di tante.
Per sopperire alle ristrettezze economiche, Ada decide di andare a lavorare in fabbrica come operaia e questo segna il punto di non ritorno per Antonio: uomo d’altri tempi, non tollera che una donna possa lavorare, se non dentro casa. Se ne vergogna, vede il suo status sociale compromesso: lui si sente un impiegato del terzo scatto del coefficiente 271 (qualunque cosa volesse dire nel 1962), un colletto bianco, mentre la moglie ora si abbassa a diventare un colletto blu, un'”operara“, e per giunta guadagnando più di lui: intollerabile. Ada, da parte sua, risponde con una frase feroce: “Prima di sposarti le mie amiche mi dicevano: la Ada sposa un maestro!, con aria invidiosa. Ora dicono: Povera Ada. Ha sposato un maestro!”
Ada riuscirà a fare tante e tali pressioni psicologiche sul marito, da farlo dimettere da maestro e assumerlo, con suo fratello, nella ditta di famiglia. Ma come (finto) padroncino, Antonio è un fallimento: sa solo assorbire la protervia e la presunzione dei piccoli imprenditori, fino a mettere in piazza il modo in cui la moglie e il cognato frodano la Tributaria, ed essere subito denunciato da un ex collega di scuola che vive anche di questo. Escluso dalla ditta dalla moglie e dal cognato, Mombelli rifarà la trafila, a quasi 50 anni, per tornare a fare l’unico mestiere che sa fare: il maestro elementare.
Invidia per il denaro altrui.
Ma Antonio Mombelli è colmo di invidia per il successo e il benessere materiale di chiunque altro: del cognato padroncino; del direttore che gli corregge, sul suo registro personale, l’altezza delle lettere anellate come se il maestro fosse uno scolaro elementare; dei colleghi anziani; dei suoi concittadini imprenditori, quasi tutti impegnati nella produzione di scarpe. Invidia financo il giornalista Pallavicino, ridicola figura di cronista d’assalto che così si esprime sul fondamentale foglio “L’informatore vigevanese”: “Vigevano vale duecento Parigi. Cosa c’è a Parigi che non ci sia a Vigevano? A Parigi c’è Pias Pigal; a Vigevano ioma Pias Ducal; a Parigi c’è la Senna; a Vigevano c’è il Tisin; a Parigi c’è la tur Eifel, num ioma la tur Bramant”. La misera figura di Mombelli è a sua volta messa in discussione e sulla graticola da parte di ogni altro personaggio. Perfino il figlioletto Rino osserva il padre con occhi di sfida, di compassione priva di pietà.
I dialoghi: uno dei punti di forza del romanzo.
Uno dei punti di forza del romanzo sono i dialoghi: usano un linguaggio brusco, iperrealistico, diretto e con metafore volgari, fra cui la più ricorrente, quasi come un jingle della pubblicità rimane in testa al lettore e proviene ovviamente da un collega “educatore”, il maestro Filippi: “Funziona la mazza? E quando funziona stai a posto!”. In tutto il romanzo, Filippi non chiede altro, al massimo parla della sua mazza, e di quanto bene funziona. L’importanza e la centralità del cazzo priapesco, da ostentare soprattutto in un ambiente quasi solo femminile. E per lo meno Filippi si esprime con un linguaggio vivo e vivace, che contrasta con il burocratese del resto dei maestri e del direttore.
Non manca qualche difetto letterario.
Tuttavia un paio di difetti a Il maestro di Vigevano glieli ho trovati: troppi personaggi escono di scena morendo, che se è un fatto di vita, comincia a diventare parossistico quando muoiono il secondo figlio, pochi giorni dopo la nascita, la moglie, per un male che spunta fuori all’improvviso come un fungo d’ottobre, tre colleghi di scuola. Per esagerare, il figlio Rino, diventato quasi adolescente, adesca e picchia un noto pederasta e finisce in riformatorio. Ho mal digerito anche quelle 15 pagine (130-45) in cui il maestro Mombelli ci ammorba, scavando nel dettaglio didattico, con la sua lectio magistralis di linguistica e retorica per ridiventare maestro: un’isola priva di utilità letteraria che rompe la regola aurea del “mostrare e non raccontare” (show, don’t tell).
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