La giustizia italiana non ha bisogno di muri tra accusa e giudizio, ma di una visione capace di restituire fiducia, efficienza e indipendenza reale. Il dibattito sulla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante ritorna ciclicamente come una promessa di riforma epocale, una sorta di panacea capace – secondo alcuni – di risolvere gran parte delle disfunzioni del nostro sistema giudiziario. Ma davvero basta dividere i percorsi di pubblico ministero e giudice per restituire efficienza, imparzialità e credibilità alla giustizia italiana? È una domanda che merita di essere affrontata con rigore e senza slogan. Oggi il rischio è quello di trasformare un tema tecnico e complesso in una bandiera ideologica, piegata alle esigenze del consenso o della contrapposizione politica.
La separazione delle carriere, in teoria, nasce da un principio condivisibile: garantire che chi accusa e chi giudica restino su piani distinti, in nome di una terzietà effettiva del giudice e di un equilibrio dei poteri più trasparente. È l’impostazione tipica dei sistemi di common law, dove il pubblico ministero appartiene all’esecutivo e non alla magistratura. Ma il contesto italiano è diverso: la nostra Costituzione – agli articoli 101 e 104 – disegna un modello in cui giudici e pm appartengono allo stesso ordine, a garanzia dell’indipendenza complessiva da ogni ingerenza politica.
Cambiare questo assetto non significa solo riscrivere una norma, ma toccare l’equilibrio costituzionale tra poteri dello Stato. Per questo la questione non può essere ridotta a una contrapposizione tra “giustizialisti” e “garantisti”, ma va letta nella sua portata istituzionale. Molti magistrati temono che la separazione possa condurre, di fatto, a una subordinazione del pubblico ministero al potere esecutivo. Se il pm dovesse dipendere gerarchicamente dal Governo – come accade in altri ordinamenti – si rischierebbe di trasformare l’azione penale, oggi obbligatoria per Costituzione, in un atto discrezionale, selettivo, potenzialmente influenzabile. D’altra parte, è innegabile che la contiguità culturale e di carriera tra pm e giudici abbia spesso generato zone grigie, percezioni di scarsa imparzialità, o di “corporazione chiusa” difficile da scalfire.
La vera domanda, allora, non è se separare o meno le carriere, ma come riformare complessivamente la giustizia. Servono tempi certi, processi più snelli, un sistema disciplinare efficiente e un reclutamento trasparente. Servono investimenti sulla digitalizzazione, sull’organizzazione degli uffici, sulla formazione di magistrati e avvocati. La giustizia non si riforma per slogan, ma con una visione. La separazione delle carriere può essere un tassello, non la soluzione. Pensare che basti dividere gli uffici per restituire fiducia ai cittadini significa ignorare le radici profonde del problema: la lentezza, la carenza di organico, l’assenza di responsabilità politica nella gestione del sistema. In fondo, la giustizia italiana non ha bisogno di nuovi muri, ma di ponti: tra accusa e difesa, tra giudici e cittadini, tra diritto e società. Solo così la riforma potrà essere davvero al servizio della democrazia, e non della propaganda.
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