Se non ora quando? È il titolo del secondo romanzo di Primo Levi ambientato nella seconda guerra mondiale. In Italia ci fu una guerra civile tra il 1992 ed il 1993, stragi e attentati colpirono il Paese, e tutto era originato dalla Sicilia, terra bellissima ma zeppa di omissioni, segreti, ma soprattutto espressione della banalità del male.
Quando arriverà la pace della verità per Paolo Borsellino, martire italiano con una medaglia d’oro al suo valore civile, ma maltrattato da uno Stato a dir poco ambiguo, tra insipienze, superficialità, egoismi e carrierismi di tanti, tradimenti di alcuni, e tanti, tanti, depistaggi? Dopo ben 33 anni è più facile intravedere il barlume di una verità storica che quello dell’appuramento dei fatti giudiziari. Una cosa risulta chiara, come una verità popolare, lo Stato, nelle sue forme, apparati, divise, appartenenze, ed in alcuni suoi uomini, lo ha tradito. E senza una verità inoppugnabile, che è quella che, da soli, chiedono i suoi figli, continua a farlo.
Da Mori a De Donno, qualcuno sa
Ma qualcuno sa, anche se molti non ci sono più, ma ancora non dice o non dice tutto. Il Generale Mori e il suo ufficiale De Donno, per esempio, sanno. Sanno molto di più di quello che hanno potuto dire nel difendersi dai propri processi. Quando parleranno restituendoci l’onore, quello vero, non quello fasullo dei mafiosi? Se non ora quando? Oggi si scoprono i brogliacci del dossier appalti, assurdamente derubricati e lasciati alla polvere. Si cercano, oggi, agende nelle case di alti magistrati ormai deceduti, se ne indagano altri, che hanno il diritto processuale di difendersi, ma hanno il dovere civile di onorare quella toga che Borsellino portava con rispetto e onore.
Borsellino sapeva di morire
Onore parola dimenticata da molti, tanti, troppi, chiusi nella difesa di simulacri di carriere, di false appartenenze, di caste che difendono sé stesse, ma non il senso dello Stato che è stato l’altare su cui si è sacrificato, martire consapevole, Borsellino. Lui sapeva di morire, non premoniva, lo sapeva dalle informative in suo possesso. Poco prima di morire confessò a Don Rattobaldi che era arrivato l’esplosivo per lui dalla Jugoslavia. Molti detestavano, in pubblico ed in privato, Giovanni Falcone per quel suo carattere dirompente, schietto, senza peli sulla lingua. Ma Borsellino, a parte la sua testarda, silenziosa, dedizione al lavoro, a chi dava fastidio? E soprattutto quali indagini stava affannosamente portando avanti che hanno convinto la mafia ad eseguire una strage così eclatante da essere ovviamente controproducente? Cosa stava scoprendo, quali soldi, perché la mafia ha a cuore solo quelli, stava seguendo?
Il pentito Brusca e la verità
Il pur corposo dossier appalti, bellamente ignorato dai colleghi di Borsellino, era un tentativo di Mori e De Donno di capire se qualcuno volesse seguire la pista? Perché solo Borsellino ci ha provato? C’era dell’altro che portava alle complicità, evidenti, tra il sistema economico nazionale e la mafia? I due carabinieri, usi ad obbedir, a volte, tacendo possono dircelo, o dirci chi li ha fermati nelle loro indagini?
Ma soprattutto questo Stato, ottuso e distratto, può chiedere al “relativo” pentito Giovanni Brusca, oggi libero, che sa tutto, la verità su appalti e collegamenti, sulla pista agrigentina che teneva assieme i “piccioli” e le latitanze sue e di Riina? Perché il 19 luglio, e non aspettare un po’ di tempo affinché le acque non si calmassero?
Le domande sono tante, ma le risposte qualcuno le cerca? La Meloni, che si è ispirata a Borsellino nel suo percorso politico, può imprimere un’accelerazione per la scoperta della verità? Paolo Borsellino non ha bisogno di medaglie postume, né di fiaccolate, ma della luce e della fede che lui aveva in Dio, e con tutti i ragionevoli dubbi nello Stato. E dopo 33 anni, assurdamente tanti, abbiamo solo un dovere. Accendere quella luce, o riconoscere che siamo una Repubblica, al contrario di lui che era un uomo, fatta di mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà, come scriveva un siciliano che ne capiva.
