Breve esame del Piano Trump-Blair per Gaza: tra garanzia, autodeterminazione e stabilità

FILE - President Donald Trump speaks at a ball after his inauguration, Jan. 20, 2025, in Washington. (AP Photo/Ben Curtis, File)

Non sono certo il solo ad avvertire l’assenza, nell’opinione pubblica, di idee precise su cosa sia una guerra, come se mancassero sia i criteri di un discernimento sia la voglia di averli. Come può accadere ai più di entrare continuamente in cortocircuiti cognitivi, confondere una guerra urbana con un genocidio, l’applicazione del diritto di occupazione con arbitrio e illegalità, l’allontanamento di popolazioni (transfer of civilians) dalle aree di conflitto con le deportazioni di massa, un piano di occupazione e di ricostruzione con un’azione coloniale, una guerra con un’operazione di polizia internazionale o, quando fa comodo, un’operazione del genere con una guerra, e via dicendo?

Vecchie generazioni, noi siamo protetti dalla storia: in tema di occupazione militare, chi ricorda come normalità e normalità benefica la presenza degli Alleati nell’Italia del primissimo dopoguerra, e ha poi un po’ riflettuto, sa che si trattò di una transizione necessaria. Anche ammettendo che le opinioni pubbliche siano oggi emotivamente contagiate da influencer e da leader ‘politici’, per usarle come masse d’assalto non si sa contro chi, la confusione che ci accompagna dopo il 7 ottobre denuncia una impressionante carenza di senso della Realtà nell’intelletto collettivo, in un quadro non propriamente ‘buonista’ anzi saturo di indeterminate avversioni. Non sorprende che sia così facile indirizzarle contro gli ebrei.

Breve esame del Piano Trump-Blair per Gaza

Questa premessa per avviare un breve esame del Piano Trump (o Trump-Blair) per Gaza. In paginette di quasi un anno fa, apparse poi in media di nicchia, scrivevo che il dato cruciale per la pace, ovvero la non belligeranza, a Gaza sembrava essere quello del coinvolgimento di potenze terze regionali a controllo e garanzia dei risultati ottenuti da Israele a propria tutela. Aggiungevo che chiunque si proponesse come mediatore nei territori della Striscia per fermare l’azione di Israele, doveva mostrarsi anche militarmente capace di subentrare all’IDF nell’annientamento degli apparati terroristici ancora esistenti e nell’inibirne la formazione in futuro. E che ricostruzione di Gaza, migliori condizioni di vita (edilizia sociale, attività produttive, libertà civili) per le popolazioni palestinesi, autogoverno, erano vincolate alla condizione di un periodo di ‘occupazione’ che le promuovesse e difendesse. Infine che la attiva convergenza (anti-Hamas) dei soggetti medio-orientali non sarebbe decollata senza la certezza delle capacità di deterrenza (locali e di teatro) di Israele. Ma era implicito che nessuna istanza internazionale avrebbe potuto, né voluto comunque, l’ONU per prima, occuparsi di liberare la Striscia di Gaza dai suoi pericolosi padroni.

Il piano Trump si propone come garanzia

Possiamo dire che, rimasto intatto il sostegno del governo americano e soddisfatte le precondizioni (annientamento delle Brigate al-Qassam, occupazione) dall’invasione israeliana di Gaza-city, insomma “liberata” Gaza come scrive Giuliano Ferrara, il Piano Trump si propone ora come programma -e garanzia- della più classica delle operazioni di pace, ordinata alla riedificazione materiale e istituzionale, quindi alla costruzione della statualità in quel territorio (punto 9 del ‘Piano in venti punti’). ‘Enemies become Friends’ secondo la formula di Kupchan. Le occupazioni di regioni collassate si vogliono oggi ‘occupazioni di trasformazione’, transformative occupations, ad indicarne l’orizzonte di legittimità e di azione, come i tempi e i fini della loro durata. Ma la ‘precaria dialettica’ di queste soluzioni esige la convergenza proattiva delle potenze arabe nel progetto, a vantaggio dei Palestinesi e di sé stesse: l’unico ostacolo alla Ricostruzione sarà infatti il terrorismo, che cercherà di colpire tutto ciò che contribuisce alla rinascita dei palestinesi.

La de-radicalizzazione

Anche questo è la ‘de-radicalizzazione’ (punto 1). E si dovrà ottenere dall’élite iraniana la rinuncia al progetto espansivo ed egemonico in Medio Oriente, fautore di terrorismo. L’occupazione trasformativa, una International Stabilisation Force a partecipazione araba, e la Transitional Governance di un Comitato palestinese tecnico e apolitico (punti 9 e 15), possono essere -se garanti gli Stati Uniti– gli strumenti di una mutazione nella storia del vicino Oriente. È questa, non l’interminabile guerra contro Israele, l’occasione da proteggere e favorire con tutte le forze, anche da parte europea, di “un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese che riconosciamo come l’aspirazione del popolo palestinese” (punto 19). Nell’equilibrio infine pro-occidentale di tutta la regione.