A quasi cinquant’anni dall’esperimento avveniristico di Moro e Berlinguer, forse oggi il laboratorio italiano ha creato le premesse per un nuovo compromesso storico, questa volta su scala europea. Non fra destra e sinistra, ma fra le due forze che, in questo scorcio di ventunesimo secolo, tirano le nostre democrazie in direzioni diametralmente opposte: tecnocrazia e populismo.
All’inaugurazione dell’attuale Commissione Europea che oggi si appresta a concludere il mandato, la Presidente Ursula von der Leyen proclamò che la sua sarebbe stata una “Commissione geopolitica.” Era la fine del 2019, un’altra epoca. Trump ancora twittava alle 2 di notte dalla Casa Bianca mentre il Regno Unito scopriva che la Brexit non era solo un brutto sogno. Il proposito di von der Leyen era di contrastare con la forza della ragione la foga irruenta ed impulsiva del populismo.
Non poteva immaginare cosa il destino le avrebbe riservato in questi cinque anni: dalla pandemia, nella quale la Commissione giocò un ruolo centrale dall’approvvigionamento dei vaccini alla creazione dei PNRR; alla guerra in Ucraina, dove Bruxelles ha scandito i ritmi delle sanzioni alla Russia e dell’avvicinamento di Kyiv all’Europa; alla guerra in Terra Santa, dove la Commissione sta tentando di inserirsi, finora senza successo, nella cacofonia europea.
Nel mezzo, un passaggio cruciale: la simbiosi di burocrazia e politica o, più precisamente, delle loro forme più estreme: tecnocrazia e populismo.
La prima si fonda sull’eredità forse più duratura del sociologo tedesco Max Weber, che vedeva nell’autorità burocratica la forma più matura dello Stato moderno. Un paese è ben governato quando la politica protegge l’autonomia dei tecnici e si prende la responsabilità delle scelte. Il malgoverno, come ben sappiamo in Italia, è invece il risultato del clientelismo, che anche quando non sfocia in corruzione, confonde gli interessi privati alla gestione della cosa pubblica. Solo con rigore, imparzialità e continuità, la burocrazia può assolvere il mandato di attuare politiche nel nome del bene comune.
La tecnocrazia europea è l’espressione più alta di questo ideale. Depositaria del vangelo del buongoverno, con gli eurocrati assurti a sacerdoti benedicenti. Per questo specialmente in Europa meridionale in passato si tendeva a guardare all’Ue come a ciò che poteva sopperire alle carenze della politica nazionale. Nel celebre adagio del filosofo José Ortega y Gasset: “La Spagna è il problema, l’Europa è la soluzione.”
Questo impianto però solleva importanti interrogativi sulla legittimità e il controllo del potere. Una burocrazia che è protetta dalla pressione politica è anche svincolata dallo scrutinio dei cittadini. Non a caso un sinonimo di burocrate è mandarino: fu la Cina nel 3º secolo aC ad inaugurare i primi concorsi per funzionari pubblici. E la Cina è tante cose, ma non una democrazia.
A dispetto dei tentativi di democratizzare l’Ue, questa falla non è mai stata davvero colmata. Al contrario, più si allargava, più si palesava l’evidenza che la tecnocrazia europea non fosse mai politicamente neutrale.
Durante la crisi dell’Euro, le politiche di austerità erano ispirate dall’ideologia ordo-liberalista teutonica. Perfino Mario Monti, il più europeista fra i nostri premier, ammoniva già nel 2011 che l’Italia rischiava di essere governata da un “Podestà forestiero” con sedi a Bruxelles, Berlino e Francoforte. È questo potere tecnocratico che si fa manifestamente politico che ha reso l’Europa invisa ai cittadini. E di conseguenza ha soffiato sul fuoco del populismo, che si alimenta proprio del rifiuto di scelte calate dall’alto.
Ciò a cui abbiamo assistito negli ultimi anni rappresenta una risposta a questo cortocircuito. Per ironia della sorte fu Mario Draghi, l’altro nostro europeo più autorevole, a celebrare il matrimonio riparatore fra tecnocrazia e populismo, con un governo tecnico sostenuto anche da forze quali la Lega e il Movimento 5 Stelle.
L’asse fra von der Leyen e Meloni non ne è che l’elevazione a livello sistemico. I recenti accordi sulle migrazioni con Tunisia e Egitto, l’esempio lampante dell’agenda populista italiana che si unisce alla tecnocrazia europea. In previsione di un’eventuale sconfitta alle elezioni europee di giugno di socialisti e popolari che sostengo von der Leyen, è oggi plausibile una forma di sostegno del gruppo di conservatori capeggiato da Meloni al futuro esecutivo europeo.
Difficile oggi dire se questo esperimento alla lunga sarà premiato. Nel caso del governo Draghi, com’è noto furono i populisti a staccare la spina. Ma in Europa non è un’anomalia: in paesi nordici come la Danimarca, dove ho lavorato da tecnico durante governi sostenuti dalla destra populista, fu sperimentato oltre vent’anni fa. Dopo tante reticenze, la Svezia oggi ha messo in atto lo stesso schema.
Al netto di giudizi di merito sulle decisioni prese di volta in volta, è importante cominciare a vedere questo come tentativo di porre rimedio ad un vulnus fisiologico delle nostre democrazie: tra le regole che piovono dall’alto e la crescente intolleranza verso le stesse che rigurgita dal basso.
