Camus e quello “straniero” che racconta di noi

Dopo questa terza o quarta lettura del romanzo sono stato egualmente catturato dallo stile, al tempo stesso liricheggiante e con una sua secchezza diaristica, ma non sono affatto sicuro di averlo inteso bene.  Nelle ultime righe Meursault pensa che nessuno aveva il diritto di piangere sulla madre: avrebbe significato in fondo condannarla all’infelicità, vietarle quella sua estrema, ritrovata disponibilità a «rivivere tutto», a riconoscere un limite e provare a ricominciare. Quando Meursault vede l’arabo con il coltello, e poi lo uccide sparandogli capisce di aver «distrutto l’equilibrio del giorno». Lì ha fatto, drammaticamente, l’esperienza del limite. Perciò durante il processo rinuncia a difendersi. Ma nella cella della prigione, di fronte alla morte imminente, e con la pace di «quell’estate assopita» che durante la notte sembra entrare in lui, ritrova l’imperscrutabile legame con la natura e gli altri esseri umani; e la “misura” che sempre regola quel legame. Però quella misura ciascuno deve scoprirla per sé, a meno che non intenda negare la realtà e gli altri. Come fa il marchese de Sade, che era secondo Camus l’incarnazione del perfetto letterato che sogna una irrealistica libertà totale e soddisfa tutti i desideri nell’immaginazione.