Cassazione, aggravante mafiosa può essere contestata solo se c’è dolo

Sarà più difficile d’ora in avanti per i magistrati torinesi contestare a Roberto Rosso, l’ex assessore della Regione Piemonte arrestato lo scorso 20 dicembre per voto di scambio (si è dimesso ieri anche dai consigli regionale e comunale di Torino), l’aggravante mafiosa. Lo stesso per l’imprenditore Daniele D’Alfonso, arrestato a Milano il 7 maggio all’interno dell’inchiesta chiamata “Mensa dei poveri”. E per molti altri indagati cui sia contestata l’aggravante di aver favorito con il loro comportamento un’associazione mafiosa.
La decisione numero 28 delle Sezioni unite penali della Cassazione parla chiaro: quell’aggravante ha rilevanza soggettiva. Quindi, perché possa essere contestata, occorre dimostrare che l’indagato aveva piena consapevolezza del fatto che con la propria condotta stava agevolando un’associazione mafiosa. D’ora in avanti, se si osserverà la decisione delle sezioni unite, al pubblico ministero non basterà più rilevare che il comportamento di Rosso piuttosto che di D’Alfonso abbiano “oggettivamente” favorito le cosche. Occorre il dolo, da parte loro, occorre che sappiano con certezza di aver a che fare con mafiosi.

Una bella botta, anche d’immagine, per inchieste come quella del maggio scorso a Milano, dove nelle intenzioni della procura si prepara una sorta di maxiprocesso con le 71 richieste di rinvio a giudizio già avanzate dall’ufficio del pubblico ministero. Un colpo all’accusa, prima di tutto perché l’inchiesta era stata avviata proprio dalla Direzione distrettuale antimafia e presentata in gran pompa dal procuratore capo in persona, Francesco Greco, come una prova dell’esistenza in Lombardia di un forte legame tra la politica, l’imprenditoria e la ‘ndrangheta. Finita la conferenza stampa e spente le telecamere si era scoperto che in realtà l’aggravante mafiosa riguardava una sola persona, l’imprenditore Daniele D’Alfonso, accusato anche di aver messo in scena una finta consulenza in favore di un consigliere comunale di Forza Italia, Pietro Tatarella, in cambio di agevolazioni in gare d’appalto. Proprio all’interno di queste attività l’imprenditore avrebbe dato del lavoro a operai che, secondo l’accusa, sarebbero stati legati a una ‘ndrina di Buccinasco.

Ora il problema è: Daniele D’Alfonso sapeva che quegli uomini erano mafiosi e che, offrendo loro un lavoro, lui stava aiutando la ‘ndrangheta? Secondo la decisione delle sezioni unite sarà la procura a doverlo dimostrare con una piena attività probatoria che rilevi il dolo nel comportamento dell’indagato. E non basteranno certo le ricostruzioni storico-sociologiche sulle famiglie che furono insediate con i provvedimenti di confino negli anni Cinquanta-Sessanta nel sudovest di Milano per dimostrare che lì (a Corsico, cittadina di D’Alfonso, come alla contigua Buccinasco) tutto è mafia. Lo stesso vale per la vicenda torinese che ha visto coinvolto Roberto Rosso. In questo caso l’accusa è di voto di scambio, che sarebbe avvenuto nel corso dell’ultima campagna elettorale per le regionali, in cui l’ex esponente di Forza Italia era candidato con Fratelli d’Italia e poi eletto e portato in trionfo per il significativo numero di voti elargito in dote al partito di Giorgia Meloni. La quale non ha ricambiato il favore, in occasione dell’arresto di Rosso (che pure era stato premiato con l’assessorato), dicendo che addirittura le era venuto “il voltastomaco”, sapendolo “mafioso”.

L’accusa all’ex assessore è fondata su intercettazioni della Guardia di Finanza tra due presunti “emissari” di Onofrio Garcea, considerato vicino al clan Bonavota della Liguria. Gli emissari avrebbero promesso all’esponente di Fratelli d’Italia un pacchetto di voti in cambio di 15.000 euro. I soldi versati si sarebbero poi ridotti a 7.900, forse perché i voti non erano arrivati. Ma perché contestare l’aggravante mafiosa anche al politico? È chiaro che sia stato usato il criterio dell’oggettività, rispetto al quale era sufficiente una sorta di ignoranza colposa da parte della persona indagata sui complici e sulla loro appartenenza alle cosche. Ma è stato anche sottolineato un particolare episodio, da parte della Guardia di Finanza. E dei giornali, subito da qualcuno informati.


Nel 2012, quando era in Parlamento, Rosso avrebbe firmato un’interpellanza del deputato del Pd Vinicio Peluffo contro il prefetto di Lodi, il quale avrebbe fatto parte di un’associazione di calabresi emigrati in Liguria e sospettati di avere rapporti con ambienti malavitosi. Tra questi figurava anche il nome di Onofrio Garcea. Può bastare per dimostrare che Roberto Rosso, sette anni dopo aver dato la propria firma (come spesso capita) all’interpellanza di un altro, sapeva bene con chi aveva a che fare quanto trattava con i famosi “emissari”, tra cui un’imprenditrice?

Le decisione delle Sezioni unite, vista anche la rilevanza che sempre di più si attribuisce alla giurisprudenza (come dimostrato dal serrato dibattitto in seguito alla presa di posizione, negli stessi giorni, sulla marijuana), è per ora passata inosservata alla grande stampa, ma non, si suppone, al mondo del diritto. E il mal di stomaco d’ora in avanti forse verrà a qualche ufficio del pubblico ministero, che prima di organizzare conferenze stampa sulla mafia, dovrà rimboccarsi le maniche e cercare il dolo nei comportamenti, cioè le prove. Quando e se ci sono.