Chi è Ana Alcalde, la bionda attivista spagnola della Flotilla che ora non balla più

La Global Sumud Flotilla continua a stazionare nel Mediterraneo tra proclami, balli sul ponte e un clamore mediatico che ormai appare come il vero motore dell’iniziativa. La pretesa di portare aiuti umanitari a Gaza regge sempre meno: i quantitativi trasportati sono irrisori rispetto a quanto ogni giorno entra via terra, e le offerte di consegnarli tramite canali sicuri — da Israele, dall’Italia e persino da organismi internazionali — sono state tutte rifiutate. Il vero scopo è un altro: forzare lo scontro con la Marina israeliana, trasformando i flotillanti in presunte vittime da esibire all’opinione pubblica.

Chi è Ana Alcalde, la bionda attivista spagnola a bordo della Flotilla

Ma al di là delle strategie, ciò che più colpisce sono i messaggi che emergono dall’interno della Flotilla stessa. Durante la trasmissione di Nicola Porro su Rete4, è stato mostrato un video che ritrae l’attivista spagnola Ana Alcalde, soprannominata “Gaza Barbie” e sempre pronta a esibirsi danzante sul ponte della barca, dove ha pronunciato dichiarazioni che definire inqualificabili è poco. Ha sostenuto che «non è vero che ci sono stati stupri il 7 ottobre», aggiungendo che «le stesse prigioniere liberate lo avrebbero confermato», e spingendosi fino ad affermare che «una di loro avrebbe detto di essersi sentita “brutta” perché nessun terrorista ha avuto attenzioni fisiche verso di lei». Parole mostruose, allucinanti, esecrabili, tanto più se pronunciate da una donna, che finiscono per negare e banalizzare la violenza sessuale come arma di guerra. È difficile immaginare un insulto peggiore alle vittime e al loro dolore.

I dubbi sulla spedizione

La questione della trasparenza è un altro punto dolente. I canali di finanziamento restano oscuri, e figure come Mohammed Hannoun, già colpito da sanzioni USA per presunti legami con Hamas, risultano coinvolte nell’organizzazione. Inchieste giornalistiche hanno sollevato dubbi su ulteriori connessioni che, se confermate, getterebbero una luce ancora più sinistra sulla natura reale della spedizione.
Intanto la Flotilla si presenta come una compagnia di ventura eterogenea e mal gestita: defezioni, litigi interni, espulsioni di giornalisti non allineati, balli e canti sopra le barche, richieste di scorta navale da parte della Marine europee.

Una sceneggiata che appare offensiva non solo per l’intelligenza dell’opinione pubblica, ma persino per i palestinesi stessi, i quali vivono una tragedia quotidiana che nulla ha a che vedere con il carnevale messo in scena dagli allegri naviganti. Tutto lascia pensare che l’umanitarismo sia soltanto un pretesto. L’obiettivo reale è arrivare al contatto fisico con le forze israeliane, trasformandolo in uno show globale. Non è molto diverso da quello che fanno gli hooligans negli stadi: la partita è una scusa, il vero scopo è scatenare la violenza. E qui la scusa si chiama Palestina e la violenza è determinata dall’odio verso Israele.

C’è poi da considerare un paragone importante, che impone una riflessione e dovrebbe imporre cautela. Mi riferisco al caso della flottiglia del 2010, guidata dalla nave, battente bandiera turca, Mavi Marmara. Quando la Freedom Flotilla di allora tentò di forzare il blocco navale israeliano, furono inviati commando speciali israeliani (Shayetet 13) ad abbordare in acque internazionali le sei navi degli attivisti. Quando i militari cominciarono l’abbordaggio della Mavi Marmara, dopo che la risposta via radio all’ufficiale che intimava di invertire la rotta fu “tornatevene ad Auschwitz” gli attivisti a bordo reagirono con violenza: spranghe metalliche, bastoni, catene, collettivi di uomini che tentarono di assalire i soldati per gettarli fuori bordo. Ne risultarono nove attivisti uccisi sul colpo (più uno deceduto in seguito) e decine di feriti tra i passeggeri; dieci commando israeliani rimasero anch’essi feriti, due in modo grave, secondo le fonti ufficiali.

Gli irresponsabili della Flotilla: niente più balletti sul ponte

Questo evento dimostra l’incoscienza di chi crede che un’azione marina contro una forza militare possa rimanere “simbolica” e pacifica, se i primi a non essere pacifici sono gli attivisti stessi. Gettare un soldato fuori bordo, attaccarlo con armi improvvisate, è un tentato omicidio, non una protesta. Dimostra anche, se non fosse già ovvio, che le regole di ingaggio militari non sono quelle di una polizia urbana europea: i commandos imbarcati sono addestrati a gestire la violenza in situazioni di alta tensione, ma finire fuori bordo, di notte, anche per un militare esperto è un rischio mortale. Porsi come “martiri” della causa ignorando queste dinamiche è un atto di irresponsabilità strategica e morale.

Chi oggi guida la Flotilla 2025 — o almeno chi ne controlla i nuclei più aggressivi — dovrebbe avere ben presenti queste lezioni di sangue. Niente più balletti sul ponte, niente retoriche innocenti: chi spinge verso il contatto violento è un giocatore che mette in serio pericolo vite umane per un obiettivo puramente propagandistico. È auspicabile che chi è in buona fede a bordo delle barche, chi è davvero non violento e animato da sentimenti nobili, si defili dalla Flotilla (come alcuni hanno già fatto nei giorni scorsi) per evitare di rimanere coinvolto, loro malgrado, in un gioco potenzialmente letale, lasciando il rischio a quelli che, invece, lo cercano.