Chi era Antonio Martino, un libertario antiproibizionista ‘rivale’ di Tremonti

Chi ha conosciuto Antonio Martino, che da pochi giorni non c’è più, ricorda l’economista, il Chicago boy allievo del Nobel Milton Friedman, il ministro degli esteri che parlava l’inglese, o meglio l’americano, come se fosse nato e cresciuto là invece che nella languida Sicilia dei sonnellini pomeridiani con il pigiama di seta, o ancora il docente di scienze politiche. Il liberale, soprattutto, figlio del liberale Gaetano, uno di quelli che inventarono e costruirono l’Europa. Per me, che ho avuto l’onore di sentire la prima volta la sua voce in una telefonata imprevista e sorprendente almeno un anno prima della nascita di Forza Italia, il suo essere liberale era la sua parte libertaria e antiproibizionista. Per me il professor Martino allora era un maestro, un puntino luminoso lontano e sconosciuto, ma prezioso. Anche se lui non lo sapeva. E non mi conosceva.

Era il 1993 e avevo deciso di rompere con la sinistra. Non ne potevo più delle ipocrisie, della mancanza di progetto, della burocrazia che uccideva i sogni, dell’incapacità di credere davvero nello Stato di diritto con garanzie uguali per tutti, dai “compagni che sbagliano” fino agli imputati di mafia. Ero in Parlamento a combattere a mani nude, in solitudine contro quelle leggi sciagurate che hanno prodotto gli articoli 4-bis e 41-bis dell’ordinamento penitenziario e il famoso ergastolo ostativo. Sola nell’universo della sinistra, delle sinistre. Così un giorno ho chiesto ospitalità al Giornale e ho scritto una lettera intitolata “Perché io compagna abbandono i compagni”. Avevo chiuso. Quel giorno ho ricevuto due imprevedibili sbalorditive telefonate, che probabilmente hanno contribuito a cambiare il corso della mia vita politica. La prima era di Antonio Martino (l’altra era di un pubblico ministero di Milano che non conoscevo personalmente, una certa Tiziana Parenti), e sono quasi svenuta per l’emozione che lui, proprio lui, il mio mito, il mio puntino che brillava, chiamasse me, sconosciuta parlamentare ormai senza patria. Lui: liberista, certo, liberale, ovviamente.

Ma soprattutto libertario e antiproibizionista. Dell’Antonio Martino antiproibizionista non parlerà nessuno in questi giorni. Pure questa sua parte neanche tanto nascosta è quella che disegna di più un modello di società che mal tollera l’invasività dello Stato e il controllo dei comportamenti individuali. Dalla politica sulla droga, quella incapace di combattere il narcotraffico ma molto brava a reprimere le libertà individuali, nasce l’intera visione della società. Anche da lì ha origine il populismo giudiziario che governa l’Italia da trent’anni. Se sei proibizionista nella politica sulle droghe, probabilmente lo sei anche nel resto della tua vita. In Forza Italia purtroppo non hanno vinto quelli che la pensavano come Antonio Martino e come me e pochi altri, ma quelli come Maurizio Gasparri, molti dei quali non si rendono neanche conto di quanto siano angusti i loro orizzonti. Non sanno che è il desiderio voluttuoso di Stato etico, prima dei processi contro Berlusconi, a fare la differenza.

Antonio Martino sapeva bene quanto fosse minoritario il suo pensiero, e ne ha presto preso coscienza. I suoi duelli con il keynesiano Giulio Tremonti non erano sfumature, erano distanze siderali. Tra statalismo e liberalismo, certo, ma essenzialmente tra una società con poche regole chiare e applicate o al contrario un mondo in cui lo Stato-padrone, lo Stato-padre, ha il potere di mettere il naso nella tua vita. E te lo ritrovi nel caffè della colazione del mattino fino alle lenzuola della sera. Sempre lì con il ditino alzato a giudicare e proibire. Non si costruisce un movimento liberale se non si è anche libertari, Antonio lo aveva ben chiaro, e a un certo punto ha mollato la presa, come molti di noi. Avrebbe potuto scrivere una lettera, parafrasando la mia di tanti anni prima, “perché io liberale abbandono i liberali”. Ciao Antonio, sei sempre un puntino che brilla, per me.